Non è mai troppo petardi

Roberto Beccantini24 marzo 2017

Quante partite ho visto vincere così, con il fastidio di doverle vincere e la tensione di non riuscirci. Italia due Albania zero passa alla cassa e non alla storia, come era logico che fosse. Il 4-4-2 del ct Ventura, da molti tradotto in 4-2-4, mi ha ricordato il movimento cinque stelle della Juventus post Firenze. Un modulo così offensivo da rendere più tirchio l’attacco e meno vulnerabile la difesa, soprattutto se Mandzukic e Insigne fanno i mediani. Calcio, mistero senza fine buffo.

Tra le armi di distrazioni di massa dalle masse, resistono e persistono i petardi. Uno spicchio di ultras albanesi ne ha fatto un uso talmente osceno che il destino, dopo gli otto minuti di stop, ha punito con il raddoppio di Immobile e lo scorcio meno fumoso di azzurro. Il rigore del vantaggio, poi trasformato da De Rossi, era stato propiziato da uno smarcamento di Belotti, che Basha non avrebbe potuto leggere peggio.

C’era una volta il blocco Juventus, o comunque i blocchi, questa è una Nazionale che ha pescato in otto club e vive di passato sicuro ma a tempo (la Bbb) e di futuro piccante ma a tema (Belotti, Immobile, Insigne, Verratti).

L’Italia è 15a. nella classifica Fifa, la Nazionale di De Biasi 54a. Meglio loro, in avvio, ma poi il penalty ha spaccato il risultato, e Palermo ha sorriso. Modici i rischi corsi, non straripanti le occasioni create. Gli albanesi l’hanno messa sul fisico, De Rossi e c. ne sono venuti fuori con la calma non necessariamente dei forti, ma dei più forti.

Nessun cambio, Ventura. O era troppo contento del campo o troppo poco della panchina. Motto della casa: non siamo gli Harlem, siamo un gruppo di studio. Il primo posto del girone ce lo giocheremo il 2 settembre in Spagna. Che è non è più l’invincibile armata del quadriennio 2008-2012, ma sempre un’armata.

Se Higuain para…

Roberto Beccantini19 marzo 2017

Se da un primo tempo così ricavi la miseria di un gol e perdi Dybala, è possibile che la Nemesi qualche pensierino lo faccia. Soprattutto se ti chiami Juventus. Ma era una Nemesi distratta, persino sullo «svenimento» di Dani Alves, alla fine, e così Sampdoria zero Juventus uno. Di grande, il risultato: grandissimo. Sul resto, si tratta.

Veniva da sette partite utili, la Samp, e Giampaolo è un signor allenatore. Predilige le vie centrali e, per questo, sacrifica le fasce. Fasce che Dani Alves e Cuadrado a destra e Asamoah a sinistra avevano governato con perizia.

Bello il gol (cross di Asamoah, testa di Cuadrado), clamorosa la «parata» di Higuain sulla pallottola di Mandzukic, cruciali i riflessi di Puggioni sul Pipita (due volte). Per 25’ solo Juventus. Per la Samp, solo Quagliarella. All’uscita di Dybala si è spenta la luce, anche se poi sono bastate le torce. Pjaca è un altro giocatore, e tra le linee ci azzecca poco.

Il primo tempo della partita mi ha ricordato Juventus-Milan: polvere da sparo contro polvere. Alla ripresa, Allegri non aveva più jolly da giocarsi, Giampaolo uno: Schick. L’ha messo, si è infortunato, è uscito.

Piano piano, e Pjanic Pjanic, la Juventus si è ritirata sotto la tenda. Il mister, lui, si è coperto: via Cuadrado e dentro Lemina, via Higuain (che non segna, in campionato, da quattro gare ) e dentro Lichtsteiner. Messaggi chiari. Quagliarella avrebbe avuto bisogno del miglior Muriel e non della sua ombra. I doriani hanno cincischiato al limite dell’area, il catenaccione di Allegri, furibondo con tutti tranne uno (se stesso), ha tenuto botta.

Dopo la sosta, Napoli e ancora Napoli in coppa. Gli scudetti passano anche per vittorie come questa di Marassi, certo. Ma non i Barcellona.

La bilancia ideale

Roberto Beccantini17 marzo 2017

Barcellona, dunque. Evviva: sono i grandi avversari che certificano le grandi imprese. E con tutto il rispetto per Borussia, Leicester e Monaco, rivali degnissimi, il Barça è un’altra cosa. Un’altra storia. La storia, appunto. Non gioca ma ti circonda, ti seduce, ti spaventa.

Sarà, per la Juventus, la rivincita della finale di Berlino. Era il 6 giugno 2015, vinse il Barça 3-1. Pirlo, Pogba e Vidal non ci sono più, al posto di Morata e Tevez giocheranno Higuain e Dybala. Gli allenatori sono gli stessi: Luis Enrique, che ha già comunicato il divorzio; e Allegri, che divorzierà anche se non l’ha ancora comunicato.

Non sono più i marziani d’antan, ma sono pur sempre un megafono del calcio. Hanno un portiere un po’ così, quel ter Stegen sul quale avevo investito fior di aggettivi. E poi Iniesta, che a 32 anni ogni tanto si mette in corta. E poi Messi, che con il Paris Saint-Germain passeggiò. E poi Neymar, che con il Paris incantò.

Servirà una Juventus superiore allo spirito gestionale che spesso ne zavorra la manovra. In Italia è la più forte, in Europa è tra le più forti. I confini rimangono le due sfide con il Bayern, negli ottavi dell’ultima edizione: per un’ora a Torino, inguardabile; per 70 minuti in Baviera, ammirabile.

Meglio la prima in casa. Bisognerà non aver paura, bisognerà far paura. Higuain, Dybala, Pjanic, la difesa: è l’ora di gettare la maschera, è il momento di raccogliere il guanto.

Favorito resta il Barcellona (60% a 40%): anche se non è più la macchina perfetta del tiki taka, anche se dalla seconda del campionato francese ha preso cinque gol in due partite, e per eliminarla non ricorse certo alla bellezza. Sono queste, comunque, le bilance che pesano le ambizioni, i valori e, direbbe qualcuno, la «cazzimma». Tutto in un mese, e molto per sempre.