La roulette fa il Monaco

Roberto Beccantini15 marzo 2017

Come gioca bene il Monaco. La squadra di Leonardo Jardim ha rimontato ed eliminato il Manchester City di Pep Guardiola, che lontano da Leo Messi, Andrés Iniesta e Xavi non è riuscito a replicare quella tirannia così totalizzante che aveva portato il tiki taka del Barcellona in cima al mondo, ai modi, alle mode.

Dal 5-3 dell’andata all’1-3 del ritorno, senza Radamel Falcao che già a Manchester aveva urlato la nudità della non-difesa del Filosofo. Chapeau. Due partite in una, al «casinò» di Montecarlo: la prima tutta del Monaco, con gli avversari allo sbando, letteralmente; la seconda tutta del City, fino almeno alla sgrullata che ha premiato l’ultimo fiato di Tiemoué Bakayoko.

Jardim appartiene alla scuderia di Jorge Mendes (il signore sì che se ne intende). Subentrò a Claudio Ranieri. Ha spremuto la Juventus, ha costruito una manovra che, al di là di chiusure non proprio o non sempre lampo, ruba l’occhio.

Gioventù bruciante. Dijbril Sidibé e Jemerson classe 1992, Benjamin Mendy e Bernardo Silva 1994, Thomas Lemar 1995 e, soprattutto, Kylian Mbappe, addirittura 1998. Dicono che sia il nuovo Thierry Henry, ha qualcosa che lo ricorda, ha segnato anche stavolta, è poi scoppiato ed uscito. Rimane l’orma: merita che i cacciatori di emozioni la seguano.

Come documenta il fatturato dei gol (sei/sei), Monaco e City sono squadre senza equilibrio. Il City, soprattutto. Palla al piede, da otto; palla agli altri, da tre. Il pressing alto che fin dalle Ramblas riassumeva e incarnava il catechismo di Guardiola non è bastato a coprire le scollature del reparto, la leggerezza della stoffa.

Difficile che il Monaco vinca la Champions. Il suo calcio è una roulette ambulante, dalla quale può uscire di tutto. Però eccita, come tutti i giochi d’azzardo.

Avanti, senza spingere

Roberto Beccantini14 marzo 2017

Ci sarebbe voluto un pugnale più affilato del Porto per eccitare le idi di marzo. Forte del 2-0 dell’andata, la Juventus ha vinto con la noia sicura che ogni pensionato sogna di trovare nella banca dei suoi risparmi. Il fatto che, come venerdì scorso, abbia deciso un rigore, farà sorridere gli avventori dei Bar sport. Si poteva discutere il braccino corto di De Sciglio, non la parata (e il rosso) di Maxi Pereira. Ha trasformato Dybala, il chirurgo che solo a Doha si fece rubare il bisturi dal paziente (Donnarumma).

Calcio, mistero senza fine bello. Nei preliminari di Champions, contro la Roma, il Porto profittò di ben tre espulsioni, tra andata (Vermaelen) e ritorno (De Rossi, Emerson). Negli ottavi, viceversa, ha pagato di tasca sua: Alex Telles, Maxi Pereira. E c’erano tutte. Tutte e cinque.

Anche per questo, diventa difficile pesare la squadra di Allegri al netto delle circostanze. Cosa possono insegnare partite del genere? A risparmiare energie, a registrare i meccanismi, a divertirsi e divertire. Lascerei perdere la busta numero due e tre. Spero nella numero uno.

Aveva giocato meglio, infinitamente meglio, la Juventus anti Milan. Esigenze diverse, certo. Questa si è presentata allo sportello con Benatia e Alex Sandro tra le nuvole, Dybala generoso, Higuain spilorcio. Mandzukic, lui, sembrava il classico quadro che sai che ti serve ma non sai dove appendere.

Come spesso succede in questi casi, quando soffi sulla candela e ti corichi, sono stati gli avversari, in dieci, a divorarsi le occasioni più limpide (due, almeno).

Il vecchio scriba pensa alla Sampdoria e al suo barbosissimo mantra: in Europa serve di più. I risultatisti non aspettavano altro: sei vittorie in otto gare, Juventus nei quarti di Champions e in lizza su tutti i fronti, cosa vuoi di più? Lo sanno.

Come invidio il Barcellona

Roberto Beccantini10 marzo 2017

Come invidio il Barcellona. I due rigorini che, complice la codardia del Paris Sg, gli hanno consentito di entrare nella storia, sono stati sepolti sotto uno strato di enfasi che noi italiani non neghiamo a nessuno, soprattutto se straniero. Culé di tutto il mondo, beati voi.

All’umile scriba che entrò nel tunnel di Omar Sivori per non uscirne più, non toccherà la stessa sorte. A naso, non si parlerà dei panni che la Var avrebbe sciacquato nel suo tecnologico Arno: il rigore di Zapata su Dybala, la non simulazione di Deulofeu, il piede in fuorigioco di Bacca sul pareggio. A occhio, non si parlerà nemmeno del sangue freddo con il quale Dybala ha trasformato il penalty all’ora dei porno (una volta), e neppure delle parate di Donnarumma, migliore in campo per distacco, della traversa di Pjanic, della mira sbirula di Pjaca.

Si parlerà solo del mani-comio di De Sciglio, cinque giorni dopo quello di Samir. Al mediocre Massa, che all’andata suggerì a Rizzoli che il gol di Pjanic (regolare) era da annullare, l’ha suggerito Doveri.

Ai tifosi del Barcellona segnalo che era da tempo che non vedevo una Juventus così rotonda, così creativa, così sciupona. Vero, il Milan non muore mai, anche se allo Stadium ci è andato vicino un sacco di volte. Nell’ultimo quarto d’ora, fino al rosso di Sosa, il suo contropiede sembrava pronto a regalarci un revival del «Clamoroso al Cibali» di ciottiana memoria.

Mi sono piaciuti Dybala da una parte e Deulofeu dall’altra. Un solo difetto, lo spagnolo: vede troppo i compagni, e troppo poco la porta. Higuain ha lottato anche per Mandzukic, mentre Pjaca tende a «laudrupizzarsi»: fenomeno in allenamento, un po’ meno sotto porta.

Ricapitolando: culé del Barcellona, spiegatemelo voi: por qué?