Da Petrini a Ferruccio

Roberto Beccantini7 maggio 2013

Ferruccio Mazzola, scomparso all’età di 68 anni dopo lunga malattia, era piccolo e talentuoso. Lo tradì il carattere, narrano i biografi. Troppo testardo, troppo solitario. Nel 2004 diventò un caso lettario, con la pubblicazione de «Il terzo incomodo», un libro che parla – anche – di doping. Il doping degli anni Sessanta-Settanta. Fu, quel tomo, un j’accuse al mondo del calcio; e dal momento che lo firmava il figlio del grande Valentino nonché fratello del celebre Sandro, apriti cielo (per un po’, almeno). Non risparmiò nessuno. Non la Fiorentina, non la Lazio, non la Roma del caso Taccola. Non risparmiò, soprattutto, l’Inter di Helenio Herrera e di Sandro, al di là dell’unica presenza ufficiale. L’autore parlò di pastiglie strane, di caffè misteriosi, di pratiche sospette.

Nel corso di un’intervista rilasciata a «L’Espresso», nel 2005, citò i decessi di Armando Picchi, morto a 36 anni di tumore alla colonna vertebrale, di Carlo Tagnin ucciso da un osteosarcoma nel 2000, Mauro Bicicli, deceduto nel 2001 per un tumore al fegato e Ferdinando Miniussi, il portiere di riserva, morto nel 2002 per una cirrosi epatica evoluta da epatite C.

L’Inter s’infuriò e sporse querela per diffamazione. Il tribunale la rigettò: «Quello di Mazzola è un racconto chiaro e completo in cui l’ex calciatore si è limitato a riportare i fatti vissuti in prima persona: fatti che concretizzano un interesse sempre attuale della collettività». Il doping, all’epoca, non era reato penale, e così nessun Guariniello aprì un fascicolo: ognuno restò delle sue idee, a cominciare da Sandro, che s’incavolò di brutto, e Giacinto Facchetti che, in qualità di presidente interista (all’epoca), aveva firmato la querela.

Come Carlo Petrini, Ferruccio ha aperto gli armadi della nostra ipocrisia. Lo ricorderemo anche per questo.

Da favorita, ma per k.o.

Roberto Beccantini5 maggio 2013

Il ventinovesimo scudetto della Juventus coinicide con il secondo consecutivo di Antonio Conte. Se il primo fu vinto in volata, sul Milan di Ibrahimovic, questo è stato stravinto per distacco. Ho azzeccato l’ordine d’arrivo (Juventus, Napoli), non le distanze. La Juventus è in testa dal 7 aprile 2012. Non è stata brillante e martellante come la scorsa stagione: è stata la più forte, stop. Chapeau ad Andrea Agnelli e al suo staff.

Su tutti e su tutto, Conte. Giocatore simbolo, Barzagli: quando arrivò, nel gennaio 2011, prendemmo in giro Marotta. I numeri non sono il vangelo ma aiutano a capire: miglior difesa (repetita iuvant), impennata di vittorie, crollo dei pareggi. E quattro sconfitte contro le zero di un anno fa. Sul piano tattico, il 3-5-2 ha scortato anche l’attuale safari. Modici i ritocchi: il 3-5-1-1, per issare a bordo il tritolo di Pogba (vergognoso lo sputo in risposta alla manata di Aronica) e, in casi d’emergenza, il 4-3-1-2 e il 4-3-3, modulo, quest’ultimo, che con Pepe «sano» avremmo visto più spesso. Credo che la prossima stagione coinvolgerà nuove sfide: questa rosa, per Conte, ha dato il massimo (concordo). Di qui la parabola dell’uomo Conte, juventino a vita, e del professionista Conte, juventino «se». Le pressioni saranno tremende. Urgono forze fresche, soprattutto sulle fasce e in attacco, là dove il via-vai potrebbe coinvolgere, addirittura, l’intero reparto.

Supercoppa di Lega, scudetto, semifinali di Coppa Italia, quarti di Champions: missione compiutissima, in rapporto alle risorse e alla concorrenza. Non è stato un campionato tecnicamente memorabile. I confini sono, da una parte, i sette giocatori forniti alla Nazionale vice campione d’Europa, segno di una buona qualità media e, dall’altra, i 18 e 30 punti inflitti al Milan azzerato e all’Inter decimata da Moratti e dagli infortuni. Altra cilindrata, la Juventus: ma Conte non vive tra le nuvole.

Mourinho: triste, solitario y (semi)final

Roberto Beccantini30 aprile 2013

Borussia, dunque. Senza se e senza ma. Fra andata e ritorno il Real si è aggiudicato soltanto i primi 15’ e gli ultimi 10’ della sfida al Bernabeu. In mezzo, tanto Borussia: dal poker & traversa di Robert Lewandowski al nitore delle geometrie. La Casa blanca insegue la «decima» del 2002, ma i soldi non sono tutto: e nemmeno Mourinho lo è. Lo avrà capito? Come immagino si sia capito quanto vale il Barcellona se Messi non gira o il Real, che pure ha una rosa più vasta, e l’ha dimostrato, se Cristiano Ronaldo balbetta.

Al leader massimo il madridismo chiedeva il trofeo massimo: la Champions. Tre semifinali, la prima persa col Barça (tra i por qué), la seconda ai rigori (col Bayern), la terza sul piano del gioco. Briciole, per il suo ego. Mou ha bisogno di nemici, se li è cercati anche all’interno (Jorge Valdano, Iker Casillas, Sergio Ramos); e in materia di «prostitute intellettuali», non frequento i viali spagnoli ma devo dedurre che, nel fissare gli aggettivi, ci sia stata più bagarre che in Italia. A José piace spaccare: seduce per quello che vince, non per come vince. Resta un grande: i tifosi di Porto, Chelsea e Inter non lo dimenticheranno mai.

A differenza della saga barcellonista, scandita spesso dagli allenatori, l’epopea del Real è storia, soprattutto, di giocatori: da Alfredo Di Stefano a Cristiano Ronaldo. Anche questo ha pesato sull’avventura del Vate. La partita è stata ribaltata da Benzema, escluso dalla formazione iniziale (ahi, ahi). I soldatini di Jurgen Klopp, giù il cappello, la stavano controllando agevolmente. Il raddoppio di Sergio Ramos ha collegato i fremiti notturni al romanzo del «miedo escenico». Troppo tardi.

Uomini di ferro su navi di legno hanno eliminato uomini di legno su navi di ferro. Sarebbe sbagliato crogiolarsi nella quasi rimonta dopo il quasi fiasco. In finale, a Wembley, giocherà il Borussia. La squadra migliore, non la squadra più forte.

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