Quella normalità improvvisa

Roberto Beccantini18 giugno 2018

Lunedì, in russo, si dice Ponedelnik. E proprio Ponedlnik, cioè lunedì, si chiamava il giocatore che a Parigi, nel giurassico 1960, segnò il gol che fulminò la Jugoslavia e diede il primo titolo europeo della storia all’Unione Sovietica.

Ecco, il primo lunedì del Mondiale ha celebrato il ritorno alla normalità: dei pronostici, almeno. I nostri aguzzini di Svezia avevano buttato giù a spallate e via-Var (rigore «recuperato») la Corea del Sud. Il Belgio, da parte sua, aveva lasciato un tempo al Panama e poi se l’era mangiato: chicca balistica di Mertens (fuori degli schemi, se mi concedete l’ardire); doppietta di Lukaku.

E quindi l’Inghilterra. Ogni volta che scendono in campo i nipoti dei maestri provo sempre un brivido. Devo a loro, in fin dei conti, l’invenzione di questa misteriosa e affascinante roulette che avrebbe scombussolato persino la partita con i tunisini, se proprio all’ultimo giro Harry Kane non ne avesse domato i capricci, lui che già aveva spaccato l’equilibrio.

Il peso del centravanti. Atipico come Cristiano. Forzuto come Lukaku. Classicheggiante come Kane. Per metà gara l’England mi era piaciuta. Velocità, precisione, forza: alla grande. Ma solo un gol. E, soprattutto, il pareggio di Sassi. Con tutto il rispetto: se era rigore il braccino girocollo di Walker, lo erano – a maggior ragione – le «kamasutrate» sul bomber degli Spurs: un paio, come minimo. Invece niente. Né dall’arbitro, né dai varisti.

La ripresa è stata, al contrario, una gomma sgonfia. Per scolpire il risultato gli inglesi, respinti dai pali, sono così ricorsi alla specialità della casa: i calci d’angolo. Sui corner, non serve la poesia: urge la prosa. L’area diventa un ring; e le stazze, pugni. Se poi dalle bolge emerge un tizio in versione Lineker, pronto a cogliere l’attimo, bè, allora la fine è nota.

Non è il calcio di un tempo. Fidatevi: è il calcio di sempre.

Le guardie svizzere

Roberto Beccantini17 giugno 2018

Il battesimo è sempre delicato ma non sempre decisivo. Ne sappiamo qualcosa noi, nel falso bene dell’Italia prandelliana in Brasile (2-1 agli inglesi e poi fuori), e nel provvidenziale grigio di Vigo (tre pareggi uno più scialbo dell’altro e poi campioni del Mondo). Per tacere della premiata sartoria Iniesta che nel 2010, in Sud Africa, cominciò perdendo 1-0 con la Svizzera. Svizzera che ha rimontato e bloccato il magno Brasile proprio nel giorno in cui i prodi messicani battevano i tedeschi detentori, non lontano dal pareggio dell’Argentina con l’Islanda e dalla vittoria tecnologica della Francia sui canguri.

Dal Brasile ci si aspetta sempre un po’ di circo. C’è stato anche questa volta, ma non è bastato. Tite ha cercato l’equilibrio attraverso una dorsale che parte dal portiere, Alisson, e continua con la coppia Miranda-Thiago Silva, due piloni (Casemiro e Paulinho, poi sostituiti) e un bouquet di fantasisti, Willian-Coutinho-Gabriel Jesus-Neymar. Con Marcelo regista mascherato.

Le guardie svizzere hanno alzato un muro mobile che solo dopo l’uscita dell’eroico Behrami è stato arretrato al limite dell’area. Petkovic è un artigiano di buon senso. I suoi guerrieri, da Lichtsteiner (l’inquilino di Neymar, più o meno) a Dzemaili, da Schar a Shaqiri, hanno lottato molto e concesso poco.

Per spaccare l’equilibrio, Coutinho si è inventato un gran gol. Sul pareggio, più pollo Miranda che non ladro Zuber (spintarella di luna). Il Brasile è un luna park che si accende a ogni giostra di Neymar e si spegne non appena la squadra s’illumina d’incenso. Non è facile neppure per Tite reggere un simile arsenale. Perché cresca il livello del gioco, deve crescere la condizione fisica, «stemma» degli elvetici.

Al Brasile chiediamo sempre di realizzare quei sogni che non siamo riusciti a vivere. Pelé ci ha abituato troppo bene.

Scusate se…

Roberto Beccantini17 giugno 2018

Scusate se continuo a chiamarli contropiede e non ripartenze, scusate se mai e poi mai avrei immaginato che le nuvole del Messico potessero far prigioniero il cielo tedesco. E invece è successo, gol di Lozano (in contropiede manovrato) e poi quel catenaccio che non si chiama più così ma sempre catenaccio è, come la guerra non si chiama più guerra ma sempre guerra rimane.

Giù il sombrero davanti ai fanti di Osorio, perché quando si batte la squadra campione del Mondo, altro non resta. Ma attenti pure ai funerali anticipati, alle condanne sommarie: la Germania è sempre la Germania. Anche se, confesso, era da anni che non la vedevo così poco Germania, così lontana dai livelli sfiorati con Klinsmann e toccati sotto Loew.

Sembrava, la Cermania, la spiderina del Sorpasso in mano a Gassman e Trintignant, in balia dei venti e delle sgassate, leggerina, arrogantina, sbilanciatina. Lo schianto era ineluttabile. Herrera e Vela, Lozano e il Chicharito Hernandez l’hanno cucinata in velocità, tanto gli avversari si sporgevano dal davanzale, e se impieghi contemporaneamente Kroos, Khedira, Ozil, Draxler, Muller e Werner o segni o segnano. Metà scienza e metà riffa, il calcio non è poi tanto difficile da tradurre.

Non che Ochoa abbia dovuto fare miracoli. Il destino gli ha dato una mano nelle mischie, in certe barbe al palo, come si diceva una volta, ma ancora più del destino gli è sono state amiche le processioni dei bianchi, noiosissime, alla perenne caccia di un pertugio, di una scintilla, di un episodio.

Nel 2014 c’era Klose. Werner si farà, ma non lo è ancora. E Mario Gomez ha bisogno di gruzzoli, non di spiccioli. La punta di peso è un’arma. Come il contropiede. Che Hummels non ha mai arginato, abbandonato com’era. E non è che, uscito il mai entrato Khedira, la Germania abbia cambiato marcia. Era calata la ola messicana. E allora, catenaccio.