Il crollo (nonostante)

Roberto Beccantini30 aprile 2017

Parafrasando Raymond Carver, di cosa parliamo quando parliamo di calcio (What we talk about when we talk about love). Parliamo della Roma. Ha perso il derby, è scivolata a nove punti dalla Juventus, rischia che il Napoli le soffi il secondo posto. Mi è sembrata scoppiata, sempre e comunque prigioniera di una Lazio che Inzaghino, orfano di Immobile – influenzato e, dunque, ininfluente – aveva mirabilmente disposto a catenaccio e contropiede, con Keita solo a ballare con i lupi. Però due gol.

La Roma, già. Siamo sempre lì. Spalletti o non Spalletti, Totti o non Totti, De Rossi o non De Rossi, stadio o non stadio. L’ultimo, fragile, Piave rimane la storia dei fatturati. Non avevano, allenatore e giocatori, neppure l’alibi delle coppe: fuori da tutte, nazionali o extra. Il pareggio della Juventus a Bergamo li proiettava a un virtuale meno sei (a quattro round dall’ultimo gong).

Come non detto. Il verdetto del campo è stato impietoso. E questa volta, come tante altre, non ci si può aggrappare all’arbitro. L’avevano fatto, nell’intervallo, i laziali e molti pazienti di fede napoletana con i loro sms di puro sdegno. Il rigore non concesso a Lukaku per pedata di Fazio, quello regalato a Strootman per simulazione manifesta (proprio lui, già protagonista di uno svenimento all’andata sotto la doccia di Cataldi). Brutta domenica, per Orsato e il suo metro ambiguamente inglese.

Essere così lontano dalla vetta nonostante un pacchetto di tredici penalty (contro i tre della capolista e i sei del Napoli) significa che se c’è qualcosa che non va, non è lassù al nord, ma nel cuore della società o nella pancia dello spogliatoio.

Bisognerebbe concentrarsi sui fatti: Dzeko, per esempio, le partite che contano non le morde, al massimo le graffia. Ecco: ricominciare da qui. A radio possibilmente unificate.

È il calcio, bellezze

Roberto Beccantini29 aprile 2017

E’ stata una partita che aiuta a crescere tutti, anche le grandi squadre. L’Atalanta ha spremuto per un tempo la magna Juventus trovando il gol con Conti, capace, lui tra i pochi, di reggere lo strascico fisico di Mandzukic.

Gasperini marcava a uomo, Masiello su Dybala, Spinazzola su Cuadrado, la qual cosa non gli impedisce di giocare un calcio moderno, un calcio che lo sta portando in Europa. Allegri ha aspettato i cadaveri sulla riva del fiume. Quanti errori, Chiellini e Khedira. E, più in generale, quante leggerezze là dove ogni scarabocchio può diventare letale, come ha certificato la frittata del due pari, a monte della carambola Barzagli-Freuler. Higuain, poi, ne aveva sempre uno addosso (Caldara) se non due (Caldara, Toloi). Gomez era il falso nueve che sabotava le geometrie.

Tutt’altra musica, alla ripresa. La Juventus è stata fortunata nell’autogol di Spinazzola, sfortunata nella consecutio temporum del braccio di Toloi-fuorigioco di Mandzukic (rigore, perché il braccio era antecedente), brava nell’impallinare l’ottimo Berisha con Dani Alves, avanzato al posto di Cuadrado dopo l’ingresso di Lichtsteiner al posto del colombiano. Splendido, il lancio di Pjanic; non altrettanto la sua notte. E Dybala, meglio decisamente a gioco lungo, anche se il rendimento esterno rimane clamorosamente sbilanciato (otto gol in casa, uno a Empoli).

Sembrava che Allegri le avesse azzeccate tutte pure stavolta. L’epifania di Barzagli, viceversa, ha ridato fiato alle trombe atalantine, sulle quali Buffon si è speso fino all’ultimo pugno. Si può prendere gol in tanti modi, soprattutto se hai di fronte il coraggio e la stoffa di una Dea, ma non come l’ha preso Madama, risultato in mano e palla al piede.

Eppure era la stessa diga che aveva resistito alla piena di Messi, Suarez e Neymar. È il calcio, bellezze.

Ma non era finito?

Roberto Beccantini23 aprile 2017

In un weekend che ha segnato il harakiri dei cinesi di Milano, la Juventus si è sbarazzata agevolmente di quel Genoa che, a Marassi, le aveva inflitto la lezione più cocente di tutta la stagione.

Veniva, la Signora, dagli applausi del Camp Nou e dalle coccole dei giornali spagnoli. Allegri ha mescolato un po’ di uomini e un po’ di schemi, «as usual», ricavando il massimo da ogni movimento, da ogni rotella: persino da Marchisio, complice dell’autogol di Munoz e di una gran legnata stampatasi sulla traversa (e da lì sul destro di Higuain, e dall’alluce sul palo).

Una Juventus bella, pimpante e allegra nel gioco come sanno essere le squadre che, al di là dell’avversario – e il Grifo non aveva certo l’hybris dell’andata – non intendono lasciare nulla al caso, nemmeno una zolla.

Il sinistro sivoriano di Dybala, il destro forbito di Mandzukic, la discesa-arresto-tiro di Bonucci. Bei gol. Era una tappa cruciale, alla luce del calendario: Bergamo venerdì, poi la roulette di Montecarlo, il derby, ancora il Monaco, la Roma a Roma. Ci siamo.

Sono trentatré, le vittorie consecutive allo Stadium. E sull’homo mandzukianus ci sarebbe da scrivere un libro. Non ci voleva il Genoa per comporre l’introduzione. Ci voleva, però, Allegri per deportarlo nella Siberia della fascia, lui centravanti geloso e goloso, e fargli credere che, in quella posizione, non solo non sarebbe stato meno forte, ma sarebbe stato, addirittura, più utile. Il vero nove che segnava poco è diventato, così, un terzino-mediano che segna abbastanza, e cuce, e copre, e si fa un mazzo tanto (a rischio giallo, talvolta).

Un accenno alla regia di Higuain, un altro al debutto di Mandragora e un salto al Bernabeu: Real-Barcellona 2-3. Doppietta di un «certo» Leo Messi. Ma non era finito?