Pericolosissima

Roberto Beccantini19 agosto 2013

Ecco quanto conta il calcio da ombrellone, con le sue sveltine da 45 minuti e le sue processioni ai rigori. Lazio zero, Juventus quattro. Per carità, neppure questo è oro che luccica, ma dal momento che in palio c’era la Supercoppa, e i duellanti hanno dato tutto quello che avevano in corpo, almeno un po’ sfavilla.

Le grandi squadre giocano con la testa, quando non hanno le gambe, proprio come ha fatto la Juventus di Conte. Il quale Conte d’ora in poi dovrà cancellare dalle pance dei suoi anche questa abbuffata. Non sia mai che i campioni si credano imbattibili. Dopo il 4-2 al Napoli, un agosto fa, ci riuscì.

Piccoli appunti di viaggio. Da una sciocchezza e un infortunio (di Marchisio) può nascere una mossa che sfigura la trama: Pogba. Come diceva quel tale, il destino mescola le carte e gli uomini, poi, ci giocano.

Tre gol su quattro sono arrivati da centrocampo e difesa: la solita Juventus, insomma, con gli attaccanti a tenere aperto il mar Rosso. A proposito: Vucinic e Tevez tendono a gironzolare ai bordi dell’area, cosa che spesso priva la manovra di un pivot vero. Anche questo, un film già visto.

L’importanza degli esterni. Lichtsteiner, per esempio: un gol e due assist. Ha preso Lulic e, con l’aiuto di Vidal, se l’è messo in tasca. Da 3-5-2 a 3-3-4: in Italia, funziona. In Europa, meno. Ecco la chiave della Juventus, nuova o diversa che voglia essere.

Che delusione, Petkovic. Mettilo prima, Floccari. Contro la Juventus, la Lazio è sempre lì, in attesa dell’attesa: di un miracolo di Marchetti, di un episodio. Male Hernanes, che soffre gli avversari di peso, rivedibile la formula dei tre registi (Hernanes, Ledesma, Biglia). Si è salvato Candreva.

Un passo avanti: la squadra sconfitta non ha disertato la premiazione. Un passo indietro: i buuuu razzisti ad Asamoah e Pogba.

Rivera e champagne

Roberto Beccantini16 agosto 2013

Gianni Rivera compie 70 anni il 18 agosto. Un lettore l’ha paragonato ad Andrea Pirlo. Come geometrie sì: penso al lancio, al dritto smarcante, «nello spazio». Ma Rivera è stato di più, molto di più: regista, rifinitore, stoccatore e nel 1973, addirittura, capo-cannoniere; 17 gol, con Paolino Pulici e Beppe Savoldi, quando le squadre erano sedici e le autoreti una tortura.

Della sua generazione è stato il più raffinato e il più grande. Il più forte no: il più forte, per me, rimane Gigi Riva. Rivera riassume molti tratti della stirpe italica.

Il talento precoce: debuttò in serie A, con l’Alessandria, a sedici anni non ancora compiuti. Poi solo Milan.

Il compromesso fisico: aveva spalle banali, torace modesto, diventò l’«abatino» di Gianni Brera. «Più artista che atleta».

Il compromesso storico: le celeberrime staffette «messicane», con Sandro Mazzola e per sei minuti, in finale, con Roberto Boninsegna. Un po’ al governo, un po’ all’opposizione.

L’attimo fuggente: il gol d’interno destro nei supplementari di Italia-Germania Ovest 4-3, ai Mondiali messicani. La partita che ci fece nazione e non più gregge. Una svolta, non una semplice volta.

Il politico. Da capitano e dirigente del Milan, contro gli arbitri. Da pattista e deputato dell’Ulivo, contro Berlusconi. Mondo X, padre Eligio: calcio come confine, non come prigione.

Un tocco in più. In tutti i sensi, anche letterario. E’ il titolo del libro scritto da (e con) Oreste del Buono. «Qualcosa che mai avevamo visto, né, temo, rivedremo», chiosò Gianni Clerici, paragonandone l’epifania agli strilli geniali di John McEnroe.

L’anticonformista. Madrid 1969, finale di Coppa dei Campioni: Milan-Ajax 4-1. Allenatore, Nereo Rocco. Linea d’attacco: Hamrin, Lodetti, Sormani, Rivera, Prati. E lo chiamavano catenaccio.

Gli scarti del Real

Roberto Beccantini14 agosto 2013

Non vi tedierò con l’analisi di una partita che non c’è stata se non alla fine, per un quarto d’ora. Tra la polvere e la polvere da sparo non poteva finire che così: e senza le acrobazie di Marchetti, sarebbe finita anche peggio. Italia in ginocchio: non dal papa, questa volta. Prandelli, lui, ha raccolto la pennellata di Insigne e le martellate di Diamanti. Tutto qui.

Non è neppure della qualità dell’Argentina – dalla cintola in su, soprattutto – che voglio parlarvi. Il calcio d’estate non va mai preso alla lettera. Semina dubbi, confonde le idee: raramente le cementa. Meglio andare sul sicuro. Meglio scrivere di Gonzalo Higuain.

Gira e rigira, all’Olimpico hanno segnato due del Napoli: Higuain e Insigne. Higuain, già. Fu Capello a volerlo al Real; e a difenderlo quando, acerbo e spaesato, trovava tutto tranne la porta. De Laurentiis l’ha pagato 37 milioni di euro più 3 milioni di bonus. Quanti gol gli avranno tolto Raul, Van Nistelrooy, Cristiano Ronaldo, Benzema, e quanti, viceversa, gliene avranno propiziati?

Il calcio è metà scienza e metà riffa, un po’ lavagna e un po’ destino. Va studiato ma non imprigionato. Higuain è l’ultimo scarto del Real. Scarto, come Arjen Robben, preso a 36,5 milioni di euro dal Chelsea e piazzato al Bayern per 25. E come Wesley Sneijder: dall’Ajax al Real per 27 milioni di euro e poi dal Real all’Inter per una quindicina.

A Madrid inseguono la «decima» dal 2002. Più fortunati, i rifiuti: Robben l’ha vinta al Bayern il maggio scorso, Sneijder con l’Inter nel 2010 (e proprio al Bernabeu, e proprio contro Robben). Il Napoli non è questo Bayern e neppure quella Inter: ciò premesso, sono curioso di vedere dove lo porterà Higuain, che mi piace molto, e dove Benitez porterà Higuain.