La frittata

Roberto Beccantini27 gennaio 2024

In attesa dell« «partitissima» tra Sinner e Medvedev, ci si butta sulle briciole del calcio. Sin qui, Yildiz e Vlahovic avevano fornito condimento e godimento (ai gobbi, ça va sans dire). C’è Juventus-Empoli – nella settimana, tra parentesi – che porterà al derby di San Siro, con l’Inter – e Allegri decide di mollare il turco e imbarcare Milik. Allo Stadium, per carità: e contro l’attacco più stitico del campionato. Il destino non gradisce, comunque. E’ il 18’, quando il polacco entra a tacchetti spianati su Cerri. A metà campo (sic). Marinelli dice giallo, il Var (che a volte funziona e a volte no) lo corregge: rosso. E rosso sia: corretto.

Sin lì, una punizione del serbo e un sinistro di Cambiaso, smorzati da Caprile. La sfida trasloca. Costretta a inventarsi una trama che nemmeno immaginava, la squadra di Nicola comincia a sporgersi. Madama arretra: lo fa spesso in undici, figuriamoci così. Szczesny vola su un paio di petardi di Cambiaghi; c’è Alex Sandro e non Danilo, diffidato; Locatelli play arretrato; McKennie, toccato a una caviglia, sbuffa. D’accordo, l’inferiorità numerica: ma in casa contro la penultima.

Giusto allo scadere, una sciocchezza di Gyasi libera Miretti: sorpreso, forse. Palla gol casuale ma limpida, tiraccio in curva. Vlahovic non è più trascinato: trascina. Spacca l’equilibrio in avvio di ripresa, invita l’equipaggio a non rintanarsi in coperta. Azzecca persino qualche dribbling. Nicola, lui, cambia e ricambia. Il jolly è il talentuoso Baldanzi. Un mancino che di destro, dal limite, confonde i guanti del polacco-bis. La frittata è servita.

Quando compare, Yildiz si cimenta in un paio di slalom; fa capire che se fosse entrato un po’ prima, chissà. Sono sincero: mi aspettavo di più da molti, persino dal mister, al netto della «mutilazione». Ma io non sono mai contento. E non gioco.

Rombo di tuono, per sempre

Roberto Beccantini22 gennaio 2024

Gigi Riva ci ha lasciato a 79 anni. E’ stato il più grande attaccante italiano del Dopoguerra. Un lombardo che migrò in un’isola, e ne diventò il tesoro. Ancora oggi, il record di gol in Nazionale è suo: 35 in 42 partite. Era nato a Leggiuno, sul lago Maggiore. L’infanzia povera gli insegnò che quando la vita è dura, duri bisogna diventarlo. O almeno sembrarlo.

Mancino, undici di maglia e nove di vocazione, il gol come ribellione al collegio, alle nebbie, e la Sardegna non più prigione, come gli sembrò quando ci finì, da Legnano, ma residenza e resistenza. Ha legato la carriera al Cagliari, cui dedicò il leggendario scudetto del 1970, e alla Nazionale, con la quale è stato campione d’Europa nel 1968 e vice campione del Mondo, sempre nel ‘70, in Messico. Secondo nel pallone d’oro del 1969, dietro Rivera e davanti a Gerd Muller, tre volte capo-cannoniere quando al potere erano i difensori, e i macellai prosperavano lontani dalle manette televisive. Sacrificò due gambe all’azzurro della patria, ebbe una vita sentimentale che lo portò in rotta di collisione con la «bigotteria» dell’epoca.

Brera lo ribattezzò «Rombo di tuono»: per come tirava, per come occupava il territorio; per come, soprattutto, lo contendeva agli avversari. La rovesciata di Vicenza e il gol di testa in tuffo alla Germania Est rimangono manifesti senza tempo. Lo voleva l’Inter, gli fece ponti d’oro la Juventus, pronta a sacrificare miliardi e un sacco di pedatori. Niente. In una sorta di metaforica sindrome di Stoccolma, il carcerato si era «innamorato» dei carcerieri (Cagliari, la Sardegna). E viceversa.

Da dirigente, accompagnò la Nazionale al Mondiale del 2006. Si piaceva solo, con i figli e i nipoti, la chitarra di De André fra gli scalpi più cari. Depresso ma non dimesso. Libero, e quel rombo di tuono che ci spingerà sempre a scrutare il cielo.

Il serbo della Goeba

Roberto Beccantini21 gennaio 2024

Dalle «scimmie» a Maignan (Udine, tu quoque?), una gran brutta storia, al secondo 3-0 consecutivo della Juventus., una gran piccola storia. Dopo il Sassuolo, a Lecce, là dove i salentini sono tutto tranne che barocchi. Il sorpasso «virtuale», dal momento che l’Inter araba ha una partita in meno, eccita il loggione. Se mai, si allunga la striscia: 13 vittorie, 3 pareggi. E Vlahovic non smette più: due a Consigli, due a Falcone, il secondo «rubato» letteralmente a McKennie. Non più la schiena alla porta: il pugnale, finalmente.

Mancavano le «frecce», Banda e Chiesa, più Rafa e Rabiot. D’Aversa l’aveva messa sui duelli, Allegri sui campanili per saltare il centrocampo, cosa che però escludeva le pantofole di Yildiz dalla moquette del «giuoco». Un avvio pimpante di Vlahovic, una «parata» di Krstovic (il centravanti) su incornata del texano e, per il resto, un gran ribollir di tackle con Miretti che si smarriva nella giungla e Locatelli costretto a inventarsi «Lavolpiano» tra Bremer e Gatti pur di smistare avanzi di pallone. Il popolo, che certe sfumature non le capisce, sbadigliava.

Tiri, una miseria. Viveva, il Lecce, sulle volate di Almqvist, gli spigoli di Pongracic e il mestiere di Ramadani. Si sa: se deve imporre la manovra, la Juventus sbuffa. Ma nella ripresa, verso il 50′, Allegri richiamava Miretti, inseriva Weah e spostava Cambiaso in mezzo. La trama s’impennava. Cresceva, la Vecchia, e il Lecce ne pagava il fio: sinistro di controbalzo di Vlahovic su spunto di Yildiz e cross di Cambiaso. Zampata del «nove» sul gesso della linea (da una incornata di McKennie e una parabola di Kostic); smash aereo di Bremer (da una punizione di Iling-Junior). E Szczesny? Primo e unico tuffo al 93’, su Sansone.

La Juventus non ha paura di «provincializzarsi», se è il caso. E’ solita e solida. E’ un’amazzone, più che una olgettina. Sarebbe piaciuta a Leo Longanesi: «Il tempo di trascorrere il tempo, è l’arte di non inseguirlo».