Cross and roll

Roberto Beccantini20 febbraio 2024

Quando arrivò all’Inter nell’estate del 1988, lo considerammo un «inserto» di Lothar Matthaeus, come se per avere il re fosse stato necessario prendergli anche il suo cavallo. E invece Andreas Brehme, scomparso oggi a 63 anni, era molto di più. Provenivano entrambi dal Bayern. Brehme era biondo, con un naso a uncino che gli dava un’aria da pirata mansueto, da tedesco rigoroso e orgoglioso.

«Andy» per gli amici, terzino e mediano, ambidestro, nell’Inter di Giovanni Trapattoni, quella dello scudetto-record a 58 punti, terzino sinistro. Aldo Serena, che proprio in quella stagione si sarebbe laureato capocannoniere, racconta che, se lo diventò, molto fu per i suoi cross. Avevano un taglio «a banana», a mezzaluna, liftato, di complicata lettura per i difensori, e addirittura maniacale per i portieri. Erano forza e camicia di forza.

Il suo regno era la fascia mancina, anche se il passato da mediano non gli impediva di trovarsi a suo agio persino nello shopping al centro. Campione d’Italia con l’Inter e, con la Germania di Franz Beckenbauer, campione del Mondo nel 1990. A Roma, contro l’Argentina di Diego Armando Maradona. Una partita brutta, sporca e cattiva. Un rigore che il Var chissà come avrebbe vestito o spogliato. Uomo di sinistro, lo batté di destro. Scelse l’angolo, la precisione, a conferma di una maturità che coinvolgeva i nervi, non solo i piedi.

Il numero tre era il terzino fluidificante. Giacinto Facchetti, Antonio Cabrini, Paolo Maldini. Ognuno con il suo stile. Brehme scavallava da area ad area e poi, dalla tre-quarti, pennellava. Over the rainbow. Non aveva il tritolo di Roberto Carlos, né la cipria di David Beckham. Lo ricordo sempre lì, sul cornicione di una linea, laterale in campo ma non nella vita, Andreas Brehme che Trap chiamava Bremer.

Alla memoria

Roberto Beccantini17 febbraio 2024

L’Inter è di un altro pianeta, il Napoli è imploso (tranne uno: Kvara, eroico) e la Juventus? Scomparsa il 27 gennaio. Da quel sabato: 1-1 con l’Empoli, 0-1 con la capolista, 0-1 con l’Udinese, 2-2 al Bentegodi. Per la cronaca, e per la storia: due punti tra Empoli, Udinese e Verona. La coda, non la crème. Repetita iuvant, ci insegnavano a scuola: a patto di non annoiare gli astanti. O di indisporre i tutori.

Lo spogliatoio non sarà tranquillo, ma neppure così acerbo come millanta Allegri, o così paralizzato dal famigerato rosso a Milik come suggeriscono le talpe. Le capriole economiche del padrone avevano costretto il Verona a un mercato invernale d’emergenza. Costretto a ridisegnarlo, Baroni ha riposto le torri per liberare la velocità e l’aggressività. Punte mobili, il sinistro di Suslov, re del metro quadro, e quel gran gol di Folorunsho a spaccare l’equilibrio: smash al volo di sinistro, dal limite, senza se e senza ma. Splendido. Chapeau.

Madama è fuori dall’Europa e dunque sarebbe lecito aspettarsi approcci e cadenze in grado di giustificare l’ozio settimanale. Se glielo impongono, la Juventus attacca. Ma con idee scarne e zero lanciatori. Una scorza di Cambiaso, due chicchi di Yildiz e, paradossalmente, un atteggiamento degli avversari così coraggioso da offrire domande di riserva (traduzione: contropiedi) a concorrenti che non hanno mai fatto del «giuoco» una bandiera.

Il rigore di Vlahovic, propiziato da una sbracciata di Tchatchoua su tiro di Kostic, recapitava alla Vecchia un pareggio per il quale, sin lì, pochi postini avevano suonato. Nella ripresa, Verona ancora a petto in fuori, come ribadito dall’azione del raddoppio di Noslin. Il mancino di Rabiot sembrava spalancare chissà quali scenari.
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Colpo di Lazio

Roberto Beccantini15 febbraio 2024

«It ain’t over ’til it’s over», diceva Yogi Berra. Non è finita finché non è finita, e allora piano con l’incenso a tutta birra. In Baviera farà caldo, ma intanto Lazio uno Bayern zero. Il mio borsino, legato al sorteggio di dicembre, era di 60 a 40 per i tedeschi. Sarri se l’è giocata con la lucidità della sentinella coraggiosa e rispettosa; Tuchel, con la boria del generale che, d’improvviso, si scopre fallibile. Lo 0-3 di Leverkusen è stato un allarme al quale pochi hanno dato retta, convinti che fosse falso, o comunque gestibile. Musiala, il più vivo; Kane, il più morto; Sané, il più venezia; Muller, il più salmodiante.

Il 61% di possesso e zero tiri nello specchio. Le occasioni sprecate da Musiala, Sané e Kane sono aggravanti. Nessuna parata di Provedel; una, seria, di Neuer in avvio di ripresa (su Isaksen, l’apriscatole) e una notte di Champions oggettivamente noiosa ancorché, a suo modo, piccante. «C’era Guevara» aveva invocato una resistenza che mai toccasse i bassifondi del catenaccio, a meno che i panzer, come si scriveva una volta, non fossero così prepotenti da infliggerlo. Romagnoli a dirigere le barricate, Guendouzi a calibrare il pressing, Luis Alberto a cercare lo spazio. Tutti per uno, uno per tutti.

Poi, al 69’, il marameo del destino. Contropiede a tre, Bayern infilato e pestone del legnoso Upamecano a Isaksen un attimo dopo lo sparo. Per Letexier, rigore e rosso. A moviole unificate, capitan Ciro spiazzava, di destro, il monumento al portiere «con i piedi».

Entrato De Ligt, avrebbe potuto, o dovuto, l’Aquila osare di più? L’ha cercato di rado, il raddoppio, ma l’ha sfiorato più di quanto gli avversari non abbiano accarezzato il pari. A leggere i pronostici della vigilia, questo dispaccio richiama alla mente l’1-0 degli Usa agli inglesi al Mondiale del ‘50. Sarà stato un errore di trasmissione, sghignazzavano nelle redazioni di Londra. Col cavolo.