Reazione e piattume

Roberto Beccantini28 novembre 2020

Mentre l’Inter della difesa a tre, Bastoni «mobile» e Barella perno arretrato banchetta al tavolo di un Sassuolo ubriaco di edicola, i senza Cristiano riescono nell’impresa di non vincere neppure a Benevento, con l’aggravante, questa volta, di essere andati in vantaggio.

Inter 3-0, Juventus 1-1. In questo slalom (quasi) parallelo, l’Inter parte forte, aggressiva e gli episodi la baciano. Conte ha sistemato qualcosina, il Sassuolo non è il Real e il resto viene da sé, Berardi ingabbiato, palo scheggiato da Djuricic, pilota automatico e Gagliardini che, dopo Sanchez e l’autogol di Chiriches, sistema il tabellino. All’Inter il risultato, a De Zerbi il possesso palla.

E Madama? La solita minestra, il solito possesso palla attorno ai tocchi di Arthur, un pregevole gol di Morata (ma guarda) su sventaglio di Chiesa, il raddoppio sbagliato da Dybala (l’azione più bella) e sfiorato da Ramsey. Pirlo invoca velocità e profondità, ma Pippo Inzaghi, che fu suo sodale al Milan, lo aspetta sulla sponda del fiume. E allora: o arriva il raddoppio o arriva il pareggio. E’ arrivato il pareggio, naturalmente. Agli sgoccioli del primo tempo, con Schiattarella che impegna strenuamente Szczesny e, subito a ruota, con Letizia che indovina un gran diagonale, fra sentinelle distratte e un portiere che sembrava già sazio.

Restava l’intera ripresa. La Juventus l’ha sprecata con un torello sterile, quasi concessole dagli avversari. Ci sarebbe voluto più movimento senza palla, e magari, se posso, uno straccio di dribbling. Glik sfiniva Morata, l’Omarino non trovava lampi, se non alla fine (bravo Montipò), Ramsey, Rabiot, Frabotta giravano al largo. Per tacere di Cuadrado, in versione «che io vadi». E allora? Il Benevento, incerottato ma stoico, è ancora lì che gode.

Per la cronaca: Cristiano entra con lo Spezia sull’1-1,
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Vidal e Hakimi, il mercato che tradisce

Roberto Beccantini25 novembre 2020

Nel giorno, triste, tristissimo di Diego, è difficile scrivere di calcio, visto che nessuno lo giocò meglio di lui. Però ci provo. Inter giù, Atalanta su. La Champions non guarda in faccia la storia. Un Real incerottato, senza Sergio Ramos e Benzema, i totem della difesa e dell’attacco, ha banchettato nel deserto di San Siro contro un’Inter grigia e molle, sconfitta al di là degli episodi (il rigore sì pro Nacho, causato dalla foga di Barella, il rigore no pro Vidal) e al di qua della sbroccata del cileno che Taylor ha gelato col rosso.

Così, adesso, per gli ottavi serve un miracolo. Se tre indizi fanno una prova, quattro cosa fanno? Zizou, beato lui, può permettersi ben altre munizioni rispetto al Toro rimontato in carrozza dallo 0-2 al 4-2. Questa volta, il penalty di Hazard e l’autogol di Hakimi, già suicida all’andata, hanno tracciato il solco che nessuno, da Lukaku – a proposito: più l’avversario sale, più tende a scendere – a Lautaro, da Sanchez a Barella, è riuscito a colmare. Nemmeno Conte, con lo scafandro a tre (uffa) e un furore che ormai riesce a trasmettere solo nelle proteste. E sabato, occhio al Sassuolo.

Modric, Casemiro e Kroos hanno preso possesso del centrocampo, e non uno, il baby Odegaard compreso, che non sia stato all’altezza delle esigenze. Varanne e Nacho, soprattutto: una coppia sulla quale, alla vigilia, molto si spettegolò.

Continua a tradire il mercato – Vidal, Hakimi, non meno suicida dell’andata – continua a sentirsi tradito Eriksen, le cui staffette (dall’87’, stavolta) assomigliano sempre più a quelle messicane di Rivera. Se Conte e l’Inter sembrano in crisi di comunicazione, l’Atalanta del Gasp risorge, spavalda, dallo 0-5 di Bergamo. D’accordo, Anfield vuoto non è Anfield pieno, ma il 2-0 firmato da Ilicic e Gosens è frutto di idee, non di episodi. Klopp ha ruotato i titolari, e i Reds per un tempo non hanno tirato. La Dea aveva voglia di stupire, e molte tracce portano a Ilicic, non più prigioniero di una sensibilità ferita. Valeva la pena aspettarlo.

Diego, il calcio che sognavamo

Roberto Beccantini25 novembre 2020

Diego Armando Maradona è stato troppo per tutti, anche per sé stesso. Dimenticarlo sarà impossibile. Ci ha lasciato a 60 anni, l’età che avevamo celebrato non più tardi del 30 ottobre. L’ultimo tango. L’ultimo dribbling. Nato povero, si inventò ricco di talento, così ricco da poter dissipare il sabba che lo circondava e che la sua bulimia, generosa e infinita, aveva contribuito a costruire.

Per me è stato il più grande, più grande persino di Pelé. Gianni Brera lo definì «divino scorfano». Aveva un sinistro ora violino ora coltello; il regolamento, ai suoi tempi, premiava i difensori, e per questo molti, non solo Andoni Goikoetxea, si diedero alla caccia delle sue caviglie. Era un leader naturale in campo e, appena fuori, un seduttore di popoli. Scelse Napoli e la tirò fuori dal medio evo dei luoghi comuni in cui si crogiolava o in cui la tenevamo prigioniera. Vinse un Mondiale quasi da solo – dopo aver battuto, da solo, Inghilterra (di mano e di prodigio) e Belgio – portò al Napoli i primi (e unici) scudetti della storia, la Coppa Uefa, oltre a una Coppa Italia e a una Supercoppa.

Fatico a scrivere cose che, in suo onore, non siano già state scritte o dette. Bambino, palleggiava negli intervalli delle partite. Adulto, continuò a palleggiare nel cuore delle ordalie più rusticane, dispensatore di una prodigalità che portò i compagni a perdonargli tutto, droga, donne, eccessi. Faceva vincere: what else?

Non è stato un ruffiano in un mondo che, se lo fosse stato, lo avrebbe venerato più di quanto non lo abbia usato, per poi buttarlo quando ritenne che fosse arrivato il momento. I campioni hanno bisogno di una squadra; i geni, di una palla. Ecco perché sono sempre andati d’accordo, almeno loro, almeno per novanta minuti alla settimana. Lo rivedo bambino,
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