Giro, girotondo

Roberto Beccantini13 dicembre 2020

Dal Camp Nou a Marassi, dallo smoking al saio, la Juventus ha provato a ripetere la stessa partita, prendendola di petto. Ma ha trovato solo una cosa in comune: i due rigori. Il Genoa di Maran si è messo lì, fra i bivacchi della sua tre-quarti. Con Pjaca e Scamacca che invocavano improbabili munizioni. Era a senso unico, la partita: una incessante e noiosa processione fino al momento che poi era sempre quello, un corner o un cross.

Per aprire i catenacci, se non hai un «palo» d’area che permetta di pirlargli attorno, devi azzeccare un dribbling, un movimento senza palla, un lancio filtrante. L’idea di Pirlo era di recuperare in fretta, fase che i genoani, preferendo rannicchiarsi, concedevano: e qualcuno fra Madama avrà pensato, magari, al gegenpressing. Dybala girava al largo, e non è una novità; Cristiano, idem, e anche questa non è una novità, se la pancia è piena (e dopo il Barça lo era, lo era). Una coppia a distanza: troppo a distanza. Ci provava McKennie, di testa (Perin reattivo). Si prodigava Cuadrado, il regista occulto della squadra, non però con le stesse magie del derby.

Difendevano alto, Bonucci e De Ligt. Ma palle-gol pulite, non più di un paio (McKennie all’inizio, Cristiano alla fine). Nonostante i dribbling di Chiesa. Nonostante il lavoro sporco di Bentancur. In assenza di scintille, si aspettava l’episodio, che a volte si traveste da errore. Ma di chi? Di un Genoa chiuso a chiave o di una Juventus costretta a sporgersi dal davanzale?

Improvvisamente, i petardi. Un gol di Dybala, alla vecchia maniera, su tocco aereo di McKennie (Usa e detta), poi un pisolo di Alex Sandro, freddato dalla lama di Sturaro, quindi i contatti Rovella-Cuadrado e Perin-Morata, entrato per smuovere la noia. Alla centesima juventina, il Marziano non credeva ai suoi occhi. Trasformare un 5 nell’ennesimo 8, perché no. L’edicola freme.

Di quel securo il fulmine

Roberto Beccantini10 dicembre 2020

Paolorossi. Lo scrivevo così, tutto attaccato, tutto attaccante. Lui che, toscano di Prato, nacque ala, quasi tornante, e centravanti diventò «solo» con Giovan Battista Fabbri detto Gibì o Brusalerba, al Vicenza. Un Vicenza così brillante e frizzante che, in assenza di televisioni e social, toccava a noi pennivendoli lustrare: e per questo, zelanti ma sinceri, gli affibbiammo il titolo di «Real». Real Vicenza.

Paolino. Cioè Pablito. Cioè l’hombre del partido. Aveva 64 anni. Ci ha anticipati tutti, ancora una volta. Perché sì, dentro quel fisico esile e quelle ginocchia che i chirurghi frequentavano golosi, crebbe un cacciatore di episodi, un bracconiere di attimi, uno che, pur di esaltarci, si piegava a farci piacere il gusto dell’imboscata, il profumo del gol. La partita gli scorreva attorno, placida. Paolo era la cascata improvvisa, l’onda che gonfia gli argini e poi scompare.

La carriera è un libro che si legge in fretta, visto che già a 31 anni mollò, vincitore di tanto, vinto da troppo (e da troppi menischi). Juventus, Como, dove Osvaldo Bagnoli non lo capì, Lanerossi Vicenza, Perugia, ancora Juventus – con ingorgo di scudetti e di coppe – Milan, gli ultimi morsi a Verona. E la Nazionale, naturalmente. Soprattutto.

Ci ha portato, con il «Mundial» del 1982, oltre i nostri limiti, se non addirittura i nostri sogni. Aveva il numero 20, veniva da due anni di squalifica per il caso del toto-nero, gorgo nel quale era finito più per leggerezza che per complicità. Era esploso in Argentina, nel 1978, dopo che Giussy Farina ne aveva strappato la comproprietà a Giampiero Boniperti con un’offerta in busta così esosa da spingere persino Franco Carraro alle dimissioni da commissario straordinario della Lega. Carraro, la poltrona fatta uomo. Sarebbe poi tramontato in Messico, nel 1986, sulle ceneri calde e tragiche dell’Heysel.

La Spagna. Quell’estate che sembrava non cominciare mai, e che invece, per fortuna, mai finì. Sino alla corona, sino allo scettro di re,
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Smacco matto

Roberto Beccantini9 dicembre 2020

Esce da tutto, l’Inter di Conte, persino dall’Europa League. Lo 0-0 con lo Shakhtar incarna lo spirito del tempo. Per carità, la traversa di Lau-toro e le parate di Trubin, ma quando su sei partite ne vinci una, ritardi i cambi e regali a Eriksen i soliti spiccioli di riveriana memoria, hai poco da ribellarti al destino. Lo schema-Lukaku non ha funzionato, questa volta. Anzi: come nella finale di Europa League contro il Siviglia, quando fallì il 3-2 e firmò l’autorete del 2-3, una sua «parata», in fuorigioco, ha cancellato un possibile gol di Sanchez. Corsi e ricorsi.

Uno smacco matto senza precedenti. Ha attaccato, l’Inter, per dovere, quasi mai per piacere, dettaglio che si avvertiva nell’aria e nell’area. I palleggiatori di Donetsk, brasiliani in cerca di una scrittura, si sono messi lì: e solo nella ripresa hanno alzato il capino e azzardato (con Taison, con Solomon) qualche balletto. La difesa a tre non ha aiutato Conte se non a proiettare campanili (con Bastoni). I blitz di Barella, le volate di Hakimi, il pennello sdrucito di Brozovic: piccole iniziative che mai hanno fatto una forza vera, una qualità alternativa alle emergenze, alle esigenze.

L’Europa, per Conte, non è mai stata una fissa. La specialità rimane il campionato. Al quale potrà dedicarsi anima e corpo. E, a dodici milioni netti all’anno, guai se non lo vince. I bar sport e le edicole temevano che Real e Borussia, al chiuso della premiata pasticceria di Valdebebas, facessero un bel biscotto. Tutti attorno al forno, allora: doppietta di Benzema nel giro di mezz’ora, pali, fulmini, traverse, Real primo, tedeschi secondi. Le scommesse di un gol dell’Inter al 90’ o giù di lì crepitavano. Proprio per questo era diventata la «pazza» Inter. L’unico biscotto resta, per ora, l’esame perugino di Suarez. Coraggio.


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