L’assist

Roberto Beccantini18 novembre 2020

Prima con merito, la Nazionale del Mancio si giocherà nell’ottobre del 2021, dopo l’Europeo, anche la Nations League. Così, in ordine alfabetico: Belgio, Francia, Italia, Spagna. Il 2-0 di Sarajevo, città martire che segnò la fine dell’era Sacchi, ha ribadito quanto il gioco scorra – chiunque sia in panca a governare: Evani, 3 su 3, o il titolare – e quanto, anche per questo, o soprattutto per questo, i giocatori siano stati portati al massimo. D’ora in poi, l’ultimo passo, che resta il più complicato, tocca a loro. Ma ci sarà tempo per discuterne.

Jorginho su rigore e Berardi con la Polonia, Belotti e ancora Berardi con la Bosnia. E di Donnarumma, non più di una parata (su Prevljak). Casa o fuori, il canovaccio non cambia. In pressing, sempre, recuperi voraci e smarcamenti a dettare i passaggi. Gli avversari non erano d’alto lignaggio, per carità, e il balzo estremo andrà fatto proprio contro le France e le Spagne, ma in passato non è che i materassi suggerissero sogni radiosi.

Il calcio del covid ha scombussolato il mondo. Fra porte chiuse e socchiuse, i giovani hanno cominciato a giocare, e sempre a livelli più alti (Barella, per esempio) e così sono caduti certi muri, certe mentalità. Mancini ha battuto tutti sul tempo.

Chiudo con un termine: assist. Così prezioso, così elitario che andrebbe spacciato con cura. Invece no. E’ diventato assist, nella paranoia del calcio post-moderno, persino la parabola di un corner che incoccia una qualche nuca, un qualche ciuffo e da lì carambola in rete. A Sarajevo, finalmente, un tuffo nel classico. Assist puri, assist veri: il primo, pennellato, di Insigne (in versione sarriana, senza un Higuain da 36 gol a fargli ombra) per Belotti; il secondo, pettinato, di Locatelli per Berardi. Che, a 26 anni, non è più il ragazzo che barcollava sul futuro come un ubriaco sul tetto. Vive nel presente, a Sassuolo, e si diverte.

Il piacere di giocare senza palla

Roberto Beccantini15 novembre 2020

Già immagino il loggione: che ciofeca, ‘sta Polonia. Ma se è stata così sterile, così vecchia, così sciatta, lasciatemi pensare che «la idea» (di essere spavalda, frizzante, aggressiva) gliel’abbia rubata la Nazionale del Mancio a casa e di Evani in panca. Due a zero a Reggio Emilia, primo posto nel girone di Nations League e mercoledì a Sarajevo, contro la Bosnia, la prospettiva di filare dritti alla «final four». Modestamente.

Non è la prima volta che gli azzurri mi strappano dal divano. Sono giovani, hanno fame, giocano di prima, massimo due tocchi e, soprattutto, corrono senza palla: dettaglio, cruciale, che aiuta persino gli elementi più in crisi a sembrarlo di meno: penso al Federico Bernardeschi juventino.

Mancava un sacco di gente, anche Leonardo Bonucci, ma proprio lì, nel cuore del bunker e al cospetto di un cliente del calibro di Robert Lewandowski, la squadra ha cominciato a fissare le insegne, «hic manebimus optime», con Francesco Acerbi e Alessandro Bastoni. Povero Lewa: passare dalle munizioni del Bayern alla cartuccera polacca è stato come traslocare dalla Quinta strada al Sahara.

In questi casi, è giusto brindare a patto di non ubriacarsi. Il ct Brzeczek aveva escluso Zielinski e alzato un catenaccione di una tristezza infinita. Fatico, tra i nostri, a trovare uno che non sia stato all’altezza: e se Gigio Donnaruma ha parato poco, mica colpa sua. Unica seccatura, continuiamo a segnare poco in rapporto al crepitio del fuoco: e non ci sarà sempre un avversario così timido e scarpone (Goralski, doppio giallo) a darci una mano, a crogiolarsi nella polvere. C’era voglia di una partita simile, generosa nel pressing ma non certo nell’arbitro, tutti al servizio di tutti, con Manuel Locatelli, Jorginho e Nicolò Barella sempre nel vivo della manovra anche e soprattutto perché erano loro a dettarla.
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Tamponata

Roberto Beccantini8 novembre 2020

Tanto tamponò che non piovve. Caddero solo le gocce di Cristiano, il solito Cristiano: gol (su tocco di Cuadrado, il regista occulto), palo e punizione (pugni di Reina). Inzaghino, come sappiamo, era senza Lucas-Leiva, Immobile e Strakosha, bloccati dai «protocolli» ballerini di Lotito. I tamponologi sono già al lavoro.

A noi non restano che le zolle, modeste, del campo. Modeste come la partita. Era l’ora di pranzo, il vantaggio facile (e meritato per l’impatto, per l’azione) avrebbe dovuto spingere Madama a una partita meno attendista, meno amletica. La Lazio non poteva che affidarsi alle serpentine di Luis Alberto e al fisico di Milinkovic-Savic. L’idea di Pirlo è chiara (a lui): p2, pressing & palleggio, il problema è il ritmo, non tale – spesso – da spiazzare gli avversari. Morata ha fatto il sacrestano di Cierre, mentre le avanzate di Cuadrado, più ancora che i tocchi di Bentancur o gli strappi di Rabiot, costituivano l’unica scintilla della manovra. Il colombiano: un terzino-ala.

E la Lazio? Serena, con il cuore in tumulto ma l’orgoglio affamato. Ha cercato, con Acerbi e Luiz Felipe e un discreto filtraggio, di limitare i contropiede. Ha aspettato il raddoppio della Juventus e l’ingresso di Caicedo. Del primo, solo sfiorato, nessuna notizia. Dell’altro, viceversa, il canonico cerimoniale. Caicedo entra (in largo anticipo, questa volta), fa a sportellate e dalla lotteria del 95’ – come a Torino, come in Russia – estrae una pepita di gol, complica la piccozza di Correa.

E la Juventus? Sempre lì, a corricchiare, metà possesso e metà piazzamento, centrocampo piatto, Kuluseveski ingolfato nel traffico, lui che ha bisogno di spazio per buttarsi. Uscito il Marziano, acciaccato, è crollata la percezione di pericolo. E così solo Lazio. Fra le nuvole di fumo di Dybala.