Silvio, c’era una svolta

Roberto Beccantini12 giugno 2023

Silvio Berlusconi è stato un politico di destra che, nel calcio, ha fatto una rivoluzione di sinistra. Scrivere di sinistra farà sorridere, ma deve far meditare. «Di sinistra» nel senso di svolta estetica, di visione ricca di sostanza, e non unicamente di sostanze, di ville o di scandali. In smoking e non in jeans. Di gioco e non banalmente di giochi. Di faccia e non semplicemente di facciata. Che solo dopo la «discesa in campo», nel 1994, deragliò. Non l’ho mai votato, ma il suo Milan è stato un confine.

Mattone, televisioni, polisportive: fino a battezzare il calcio, solo il calcio. Non so dove sarebbe arrivato se fosse nato in un altro Paese, visto il conflitto di interessi che lo ha sempre accompagnato e raccontato. Ricordo che, appena rilevato il Diavolo dalle grinfie stanche e bucate di Giussy Farina, se chiamavi in sede e chiedevi del dottor Berlusconi, rispondeva lui. Era, ed è diventato, un maratoneta delle interviste. Al colpo dello starter (e della domanda) non mollava mai la parola. L’esatto contrario dell’Avvocato, di cui teneva una foto sul comodino, che, con la sua cinica stringatezza, avrebbe anticipato twitter.

Il Milan di Silvio. Quando lo presentò all’Arena, tra cavalcate delle Valchirie ed elicotteri battenti, ci demmo di gomito, ridemmo di lui, e non solo con lui. Ci sembrava, pur così Paperone e così bauscia, il comandante dell’esercito di un atollo piccolo piccolo. Prossimo a essere inghiottito dall’alta marea della presunzione, dell’arroganza, della concorrenza.

Viceversa, era l’ammiraglio della Sesta flotta. Il suo Milan. Quel Milan. Con Adriano Galliani l’antennista, la Camelot di Arcore, la parabola delle crostate. Sapeva scegliere la gente che avrebbe dovuto scegliere. Arrigo Sacchi non era nessuno. In gioventù, un terzinaccio confuso fra le ragnatele di un’altra Romagna, infinitamente più dolce e solatia.
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Di corto Pep

Roberto Beccantini10 giugno 2023

Di corto muso, di corto Pep. E’ la prima Champions del Manchester City; la terza di Guardiola, la prima lontano dalle due del Barcellona con Messi, Iniesta e Xavi. Arriva da Istanbul, a cavallo di un italianissimo 1-0, conteso fino all’ultimo da un’Inter che ha sofferto, sì, ma non si è mai arresa. E sul piano delle occasioni spicciole, anzi.

Il risultato conta nelle amichevoli, figuriamoci in una finale. Avevo letto pronostici follemente sbilanciati, come se il calcio fosse una scienza esatta. E invece è un inno all’imperfezione: nel bene e nel male. Specialmente in una gara secca.

Campionato, coppa, Europa: il City degli emiri realizza, così, il triplete. Imbattuti da settembre, un po’ stanchi alla meta, ma sempre squadra. Anche nei momenti d’emergenza. Rari, nell’arco della stagione: non pochi, nella notte sul Bosforo. I Blue moon hanno fatto la partita, la squadra di Inzaghino ha giocato come doveva, e non solo come poteva. L’ha tradita Lau-Toro, egoista sullo 0-0. E, dopo la traversa di Dimarco, segno di un destino se non proprio schierato almeno capriccioso, persino Lukaku, di testa, a tu per tu con un Ederson fin lì amletico, e da lì eroe omerico. Anche sull’ultima raffica di Gosens, in coda alla coda.

E’ stata una partita brutta, piatta, per un tempo. Al City il cuore del ring, come era nei voti. Agli avversari, i cambi di gioco e un paio di potenziali contropiedi. Magri, i brividi: un sinistro di Bernardo Silva, una sassata di Haaland murata da un Onana non meno «ballerino» di Ederson.

L’infortunio di De Bruyne ha liberato Foden, prezioso nei ricami, straordinario in un numero che avrebbe giustificato il raddoppio (tiro fiacco, sul portiere). Inzaghino ne esce con una sporta di tanti rimpianti e pochi rimorsi. In generale, le difese hanno disarmato gli attaccanti: Haaland, Dzeko, Martinez, lo stesso Lukaku.
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Finalmente, «la» finale

Roberto Beccantini9 giugno 2023

Fu proprio a Istanbul che vidi la finale più folle. Era il 25 maggio 2005: Milan-Liverpool. Forse perché eravamo sospesi tra due continenti, e dunque in posizione ambigua, forse perché il calcio è «loco» non meno del pazzo Bielsa, o forse perché qualcuno (non solo il destino, però) si distrasse: fatto sta che dal 3-0 del primo tempo si passò – in una manciata di minuti – al 3-3 della ripresa. E poi ai rigori, sui quali si arrampicò l’improvvisa aureola di Jerzy Dudek, «santo durante»: la più influente delle categorie di beati. Polacco come papa Karol Wojtyla: pure lui, in gioventù, portiere.

Morale: il Milan di Carlo Ancelotti controllò la sfida per 120 minuti meno sei. Il Liverpool di Rafa Benitez fu più umile ad accettarne il magistero e più freddo al tie-break dei penalty. Ero seduto vicino a Carlo Pellegatti: lui inviato di «Milan channel», io de «La Stampa». Naturalmente avevo scritto tutto, o quasi, fin dall’intervallo. E, ricordo, Carletto temeva che l’andazzo del match, fin troppo totalitario, avrebbe scoraggiato e allontanato fior di devoti dalla santa messa della sua radiocronaca.

Lo sapete. Successe l’inverosimile. Eupalla diede un calcio nel sedere ai fissati della logica e puntò dritto alla Bastiglia delle lotterie. E così il mar Rosso invase il mar di Marmara. Un vento forte, rissoso, accompagnò la premiazione e scortò il vuoto del dopo. Ero rimasto lassù, solo, a sfumazzare un mezzo toscano. Volavano cartacce, bicchieri di carta, cuscini con i colori dei vinti e dei vincitori. Sentii una voce. Era Antonella, la moglie del Carletto: «Ha mica visto gli occhiali di mio marito?». Ecco, in quella solitudine così lontana e così fosca, ci mettemmo a cercarli. Li trovammo.
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