Tertium non datur

Roberto Beccantini4 giugno 2023

Non è finita finché non è finita. Ma stavolta è proprio finita. Tranne che per Spezia e Verona, costretti allo spareggio salvezza, com’è giusto che sia. L’applauso del Maradona a Fabio Quagliarella, napoletano giramondo, 40 anni di gol e, improvvisamente, di lacrime, ha suggellato uno scudetto che ricorderemo e una stagione che ognuno tirerà per la giacca della propria giustizia.

La faccio breve. L’Udinese, decimata, non aveva più nulla da chiedere. La Juventus aveva, in compenso, molto da farsi perdonare. Molto? Troppo. Ha deciso un bel gol di Chiesa, inciso come un bisturi nella pancia di una classica partita di fine campionato. Chiesa, schierato ovunque tranne che all’ala. Con Rabiot stranamente a destra. E Allegri visceralmente incatenato al terzo posto sul campo, che avrebbe garantito la Champions. Invece, «solo» Conference: sempre che Ceferin sia d’accordo. La traversa di Bonucci ha ribadito quanto il destino fosse stufo di corti musi.

Cos’altro? Di puro catenaccio l’ultimo quarto d’ora, dopo i cambi di Sottil, e, in generale, un attacco tragicamente sterile. A proposito. In Friuli, là dove un agosto fa aveva chiuso Cristiano, ha chiuso anche Di Maria. Il marziano ne aveva abbastanza. Il Fideo non ha fatto abbastanza. Dicono che Allegri dovrebbe restare. Contenti loro.

Scontento almeno io, invece, per l’addio di Zlatan Ibrahimovic. Era nell’aria e nelle ruggini, però certi annunci spiazzano sempre. Ha distribuito emozioni e brividi come fossero cazzotti, metà gangster e metà ballerino, 41 anni di calcio brado e di cicatrici gelose. Un fuoriclasse. Cittadino del mondo, nato a Malmoe come Anita Ekberg. La dolce vita che solo i grandi sanno recitare.

City of Wembley

Roberto Beccantini3 giugno 2023

Que sera, sera. Whatever will be will be. We’re going to Wembley. Que sera, sera. E’ l’inno laico che accompagna la finale della Coppa d’Inghilterra. Un’emozione, sempre. L’ha vinta il Manchester City di Guardiola, 2-1 allo United di ten Hag. E così Premier, Fa cup. Manca la Champions, per il triplete: il 10 giugno a Istanbul, metropoli sospesa fra due continenti, l’Asia e l’Europa, la contenderà all’Inter.

Un Bosforo alla volta, please. E’ difficilmente battibile, il City, ma non imbattibile. L’ha ribadito anche contro i cugini. Avanti dopo 13 secondi con una volée di destro di Gundogan (su lancio del portiere e sponde aeree assortite), raggiunto da un rigore di Bruno Fernandes per braccio «alticcio» di Grealish, di nuovo a cassetta con Gundogan, di sinistro rimbalzante. Nel finale della finale, fuori Grealish e dentro Aké, con tanto di difesa a cinque, il Pep: oh yes. E traversa di non-so-chi, in un mischione che avrebbe potuto spedire ai supplementari.

Siamo agli sgoccioli della stagione, i serbatoi vanno più a nervi che a benzina. Haaland ha allargato la gamma delle soluzioni, senza inaridire le sorgenti (anzi): col Real, doppietta di Bernardo Silva; con i Red Devils, doppietta del capitano. Centrocampisti, entrambi, chi più chi meno offensivo, esaltati dalla visione che il ruolo non deve essere soltanto un ufficio ma anche, e soprattutto, un posto in cui si paga in idee, e per questo devi essere bravo tu e bravo il principale.

Al di là di un possesso non umiliante (60% a 40%), l’atto unico ha confermato quanto, d’improvviso, le distanze possano accorciarsi. Lo United, in fin dei conti, ne aveva presi tre da quel Siviglia che aveva sofferto la Juventus e «pareggiato» con la Roma. Non escludo che siano svariati i modi di affrontare il City, ma io ne colgo sempre uno: catenaccio (più o meno nobile, più o meno mobile) e contropiede. Da Klopp ad Ancelotti. C’è tempo, da qui a sabato.

Rien ne va «Mou»

Roberto Beccantini1 giugno 2023

Rien ne va «Mou». Perdere così ti fa rimpiangere di non essere morto prima, magari già nei quarti o giù di lì. Fa troppo male, un male che conosco, lasciarsi sfuggire una finale che non finiva mai, cominciata un mercoledì di maggio e terminata un giovedí di giugno, dopo 147 minuti di lotta dura, sporca e cattiva. Dopo «due giorni» di bolge e di crampi, di passioni e di pulsioni.

Va, dunque, al Siviglia quella Europa League che la Roma e il suo stregone volevano abbinare alla Conference di Tirana. Prima che molti, da Matic a Fernando, crollassero esausti, i duellanti se le erano date di santa ragione, ciascuno seguendo il proprio stile, la propria indole. La Lupa, subito in sella alla gioia di Dybala, bel gol (su lancio filtrante di Mancini, uno che quando non fa il matto è pure bravo, e non solo utile); poi vigile e compatta almeno per una quarantina di minuti. Il Siviglia è la classica zitella che ti trapana di palleggi, nella speranza che tu possa distrarti per poi fartelo pesare. Ma se non ti distrai, patisce.

Una partita selvaggia. Non formidabile e, quindi, non memorabile. Ma, per i popoli coinvolti, di un pathos che celebreranno e malediranno in eterno. Ha vinto, ai rigori, lo José meno nobile, José Luis Mendilibar. L’artigiano, non lo sciamano. Il palo di Rakitic, l’autorete di Mancini e, sparse qua, e là le occasioni di Spinazzola (in avvio), Ibanez (in mischia), Belotti e, alla fine della fine, la traversa di Smalling, il Tarzan di Budapest, raccontano di un’ordalia a lungo indecisa se premiare il possesso barocco degli spagnoli o le vampate improvvise di avversari meno narcisi.

Il serbatoio dell’Omarino aveva benzina per un’oretta. Si sapeva.
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