Senza filtro

Roberto Beccantini16 ottobre 2013

E’ una Nazionale senza filtro, come le sigarette dei tempi in cui, a Cagliari, Manlio Scopigno entrava nella camera di Gigi Riva e Ricky Albertosi e, viste le cicche sopra e sotto il tavolo, un esercito, chiedeva «Disturbo se fumo?». Due gol dalla Danimarca, altri due dall’Armenia. Il blocco della Juventus non sarà il vangelo, ma le squadre mosaico sono spesso figlie degli episodi, soprattutto se il gatto è già nel sacco (e la qualificazione ai Mondiali lo era).

Da critico, conservo un rapporto complicato con Riccardo Montolivo, i cui conigli faticano a uscire dal cilindro. Andrea Pirlo, lui, resta un signor radar, a patto che il traffico dei decolli non sia frenetico. Mario Balotelli è Mario Balotelli: uno che può fare la differenza, sempre che lo voglia e sempre che noi lo si lasci in pace. Lancio ufficialmente lo slogan della mia nuova campagna: «Più Gabanelli, meno Balotelli». Traduzione: più spazio a inchieste tipo «Report» di Milena Gabanelli, meno titoli a cinguettii e menate varie. Aumentassero almeno le tirature.

Tanto a Copenaghen quanto a Napoli la fase difensiva ha fatto acqua da troppe parti, portieri compresi. Il problema non riguarda le teste di serie, ma le teste. Mi è piaciuto Lorenzo Insigne, non mi è passata la cotta per Alessandro Florenzi, un centrocampista che, di testa o di piede, sa trovarsi sempre al posto giusto nel momento giusto.

Continuo a non capire il codice etico di «don» Cesare Prandelli, ma evidentemente sono io che non studio abbastanza. Meglio che acceleri, perché potrebbe toccare proprio all’attuale ct allenare la Juventus dalla prossima estate. Antonio Conte ha idee molto chiare, vada come vada questo campionato. Tre anni e via, alla José Mourinho. Non è un fuoco che si spegne. E’ la voglia di accenderlo con altri fiammiferi, in altri salotti.

Finalmente

Roberto Beccantini12 ottobre 2013

Lunedì 7 ottobre la chiusura dello stadio; venerdì 11 ottobre, la riapertura. Di quel securo il fulmine tenea dietro al baleno. Questa volta mi tolgo il cappello e plaudo alla velocità della giusizia sportiva (che, quando vuole puntini puntini puntini). Di mezzo, non c’era mica il Milan di Silvio Berlusconi, «condannato» a vincere (da qualche parte, almeno). E neppure la Juventus del duro Andrea o l’Inter del puro Massimo.

Il caso coinvolgeva il piccolo Sassuolo, i cui tifosi fino a giugno cantavano in coro «Mai stati in A». E così, in alto i calici, Sassuolo-Udinese si giocherà con il pubblico. I mal-pensanti sono serviti: alludo a quelli che Figuriamoci, ci fosse stato Galliani allora sì, ma Squinzi, non vorrà mettere la Confindustria con la Lega di barboncino-Beretta… E sono serviti pure quelli che Vedrete se la Federazione farà un passo indietro. Peggio per voi, anime prave.

In fin dei conti, la discriminazione «territoriale» stava diventando un tormentone di facile spaccio e difficile lettura, come il trasferimento del colera napoletano da curva a curva. Gianpaolo Tosel se lo sentiva, e agli amici lo aveva detto. Carta canta(va). Credo che il nostro calcio avesse bisogno di una svolta del genere. Tra etica che non va prescrizione, prescrizione che non va in etica e codice etico, ci voleva un passo dalla parte di quella provincia popolare ma non populista che ha contribuito a decorare la storia sacrificando spesso la propria cronaca.

Immaginate cosa avrei scritto, e cosa avreste detto, se a trarne beneficio fosse stato, cito un nome a caso, il Milan. Non senza ragione, per carità, viste le orecchie degli ispettori federali, parte distratti e parte-nopei; e dati, soprattutto, i confini territoriali (e dai!) dell’oltraggio. Tutto si potrà dire di Abete, tranne che abbia parcheggiato, una tantum, la competenza.

Pugnetto duro

Roberto Beccantini8 ottobre 2013

Noi italiani siamo proprio speciali. Vorremmo occupare le piazze e fare la rivoluzione senza nemmeno sporcarci il colletto della camicia. La lotta al razzismo è dura, sporca, cattiva. Sull’onda emotiva del caso Boateng (Busto Arsizio, gennaio scorso) si è passati dalla tolleranza mille alla tolleranza sotto zero, da un eccesso all’altro: un classico.

L’indignazione di Adriano Galliani contro i cori di discriminazione territoriale che hanno fatto chiudere San Siro (contro i cori, non contro i coristi), riassume e incarna l’eterno conflitto tra regole ed eccezioni. Maurizio Beretta, presidente-barboncino della Lega, ha subito opposto un fiero e sedegnato «sì, cambiamo la norma». E’ stata l’Uefa di Michel Platini a indicare la strada, ne sa qualcosa la Lazio. Giancarlo Abete, scopertosi suo malgrado competente, non poteva che adeguarsi.

A parole, la bussola è il rispetto. Nei fatti, la bussola diventa il tifo. Un film già visto. Ripeto: se si vuole esterpirae un cancro diffuso come il razzismo e i suoi derivati («Vesuvio lavali col fuoco»), bisogna accettare anche qualche «vittima», devi mettere in conto anche qualche sentenza al limite.

«Se cinquanta (ultrà) si mettono d’accordo, uccidono il Milan», ha dichiarato Galliani, alludendo al potere di ricatto. Peccato che per anni siano stati i Milan e i club in generale a piegare quei poteri ai propri interessi di bottega, dentro e fuori campo. Una minoranza qua, una minoranza là: et voilà la maggioranza.

Non si può tornare indietro. Sarebbe peggio. Avanti col pugnetto duro, avanti con una polizia che becchi i facinorosi stadio per stadio (se sono solo cinquanta, che problema c’è?). Evviva i Giampaolo e tutti coloro che cacciano gli ultrà dagli spogliatoi.

Mi auguro che il nuovo confine non venga tracciato dall’udito dei dirigenti o dall’audio dei filmati. Fanno testo le orecchie degli ispettori federali. O sono «territoriali» anche quelle?