Il felice paradosso

Roberto Beccantini14 luglio 2018

Non ho capito perché l’Uefa abbia tolto la finale per il terzo posto ai suoi Europei. D’accordo, l’obiettivo è vincere ma se vogliamo mandare un messaggio ai giovani, lo vogliamo mandare?, la medaglia di bronzo non deve essere presa come un contentino. Proprio per questo, evviva la Fifa ed evviva il Belgio di De Bruyne e Hazard (in ordine alfabetico). Il Belgio che in passato rimase senza governo per 541 giorni ed è riuscito comunque a produrre «ministri» del genere.

E così, ancora una volta, i «leoncini» restano ai piedi del podio. Quarti. Come a Bari nel 1990, il Mondiale delle notti magiche. Southgate torna a essere un panciotto e non più un piccolo Harry Potter col panciotto. Già nella fase a gironi aveva vinto il Belgio, 1-0, gol di Januzaj. L’England è scomparsa con la scomparsa del suo uragano, Kane: cinque gol tra Tunisia e Panama, poi il rigore alla Colombia, poi solo polvere. C’erano una volta Alli, Sterling, Rushford, Lingard. Tutti palloncini sgonfiati sul più bello, tra croati e belgi.

n alto i calici, dunque, per il Belgio di Martinez, spagnolo sì ma tutt’altro che devoto al tiki taka. Calcio verticale, il suo, sul filo di contropiede che mi hanno ricordato, per velocità e passaggio del «testimone», le staffette dell’atletica. L’hanno governato i dribbling di Hazard e l’eclettismo tecnico-rambico di De Bruyne, emerso contro il Brasile, disperso contro la Francia, riemerso contro i «maestri».

Nella storia, il Belgio (11 milioni di abitanti, tre lingue) era fermo al quarto posto di Messico ‘86. Lo allenava un raffinato stratega: Guy Thys. Serviva un altro Belgio. Il Belgio che manda i suoi a scuola in Premier e poi ne batte gli inquilini in Nazionale. Un felice paradosso.

E adesso la finale. Il mio pronostico: Francia 51% Croazia 49%.

Un pezzo di storia

Roberto Beccantini11 luglio 2018

Sarebbe stata una finale comunque storica perché inedita, se mai gli inglesi fossero riusciti a passare, ma Francia-Croazia lo sarà ancora di più. La Francia vinse il Mondiale nel 1998, quando lo ospitò, e proprio in quella edizione i croati, freschi di indipendenza, si arrampicarono fino al terzo posto. Era la generazione dei Boban e dei Suker, tanto per fissare dei confini (o dei paragoni, se volete).

Avevo detto Francia, ma avevo detto anche England. Casco sempre sul più convenzionale. A naso, mister Dalic non mi sembra un genio: e forse proprio per questo piace allo spogliatoio. In un mondo così meticcio e così vasto, la Croazia tocca al pelo i 4 milioni di abitanti, non ha sangue africano, non pesca nella Premier. E tra i migliori della rimonta, ebbene sì, due arrivano dalla tanto bistratta serie A: Perisic e Mandzukic. Uno spadaccino e un guerriero. L’interista ha pareggiato la punizione di Trippier, lo juventino ha siglato il sorpasso.

Non c’è stato bisogno del miglior Modric, anche perché, probabilmente, si è visto il peggior Kane. I «leoncini» di Southgate hanno cominciato a perdere perché troppo presto hanno pensato di aver vinto. Sono rimasti a metà del guado, e così il cuore croato li ha ribaltati. Supplementari e rigori con la Danimarca, supplementari e rigori con la Russia, supplementari con l’Inghilterra: se questo non è saper soffrire, saper reagire, ditemi voi cos’è.

Lingard, Alli, Sterling, Rashford, tutti i bebé di Southgate per un motivo o per l’altro si sono via via sgonfiati. E’ un classico dei «maestri» scendere dalla cattedra quando dovrebbero salirci. La Croazia è un francobollo di quella Jugoslavia che battezzammo il Brasile d’Europa. Nella sera in cui è stata soprattutto tedesca, eccola in finale.

La doppia sfida

Roberto Beccantini11 luglio 2018

Nessun dubbio che sia l’affare di questo giovane secolo. Cristiano Ronaldo, uno dei due fuoriclasse dominanti al mondo, l’altro è Leo Messi, ha lasciato il Real di Madrid per militare nella Juventus, la società dominante del campionato italiano.

Fin qui, tutti d’accordo. E tutti d’accordo pure sul fatto che rilancerà una serie A ai minimi storici come appeal. Si parlerà molto di noi, e non solo fra le moviole dei bar sport. Anche, e soprattutto, nel resto del pianeta, che ci considera i Sancho Panza di Premier e Liga.

Cinque palloni d’oro e cinque Champions, trofei ovunque e comunque, allo Sporting Lisbona, al Manchester United, al Real, con il Portogallo: Cristiano è Cristiano. Un extraterrestre, un marchio, un’industria. Immagino che Agnelli abbia fatto bene i conti: perché qui comincia un’altra la storia. La storia che CR7 compirà 34 anni il prossimo 5 febbraio: e un investimento da 450 milioni, tutto compreso, aggiunge un motivo di ansia al fascino indiscusso e indiscutibile dell’operazione.

Platini arrivò che aveva 27 anni, Maradona non ancora 24, l’altro Ronaldo, il Fenomeno, non ancora 21. Cristiano irrompe a 33, nel ricordo del trentaduenne Pirlo (che proprio un pacco non fu). Gli esperti giurano che il «brand» della Juventus volerà. Sul piano tecnico, quello che mi preme di più, si parla di sacrifici obbligati (Higuain, Rugani, forse altri). Con il portoghese si alza l’asticella delle ambizioni, delle attese, delle pretese. Tocca ad Allegri, che rifiutò il Real, metterci mano.

Gli avversari già davano tutto contro la Juventus, figuriamoci cosa daranno contro la Juventus di Cristiano. Giocatore e club hanno deciso di unire le rispettive storie. Nasce una doppia sfida. Della Juventus al suo passato, di CR7 al suo futuro. Con la Champions sempre lì, in posa, tra ossessione e normalità.