Sognare a occhi aperti

Roberto Beccantini2 luglio 2018

Nel Mondiale dell’«avanti popoli» la tradizione si aggrappa a quelle maglie che il Brasile adottò dopo il Maracanazo del 1950. Per quanto sia un torneo molto elitario – 20 edizioni, 8 padroni – mai come questa volta la Bastiglia sembra alla portata di molti.

Il Brasile la difende come può, come sa: e, talvolta, come vuole. Ha liquidato il Messico per 2-0, rispettando pronostico e statistiche; ha proposto Neymar, l’ultimo dei samurai scampati alla strage, nei panni di uomo-gol e uomo-assist, al netto delle sceneggiate che continuano a moltiplicare i moccoli perfino nei bar del suo Paese.

I messicani ci hanno provato con l’arma del contropiede veloce, soprattutto nel primo tempo. Quando non sono stati disarmati, hanno sbagliato, sistematicamente, il tiro o l’ultimo passaggio. Ochoa, in compenso, li ha tenuti in partita sino agli sgoccioli. Il migliore è stato uno dei peggiori delle prime uscite: Willian. Ha slalomeggiato fra i sombreristi, ha spalancato la porta a Neymar, ha reagito all’ombra lunga di Douglas Costa.

Da Dani Alves e Marcelo a Fagner e Filipe Luis il salto è stato brusco, ma non tragico. Merito di Tite e di una fase difensiva che sin qui, paradossalmente, si sta rivelando il confine più netto. Tite insiste con Gabriel Jesus così come, in Spagna, Bearzot non abbandonò mai Paolorossi. Non a caso, ha sostituito un Coutinho «tergicristallo», non lui. E proprio il sostituto, Firmino, ha siglato il raddoppio.

Casemiro era diffidato: ammonito, salterà i quarti. E’ pronto Fernandinho, luccchetto di riserva. Quando gioca il Brasile, si spera sempre nel colpo a effetto. Eppure la sua storia è piena di gloriosi e incredibili suicidi. Ci vollero Pelé e Garrincha per aggiornare le gerarchie. E Ronaldo per ribadirle. Sogna sempre, ma ha imparato dall’Europa a farlo a occhi aperti.

Portieri d’azzardo

Roberto Beccantini1 luglio 2018

Con i rigori, che per agitare il dibattito chiamo ogni tanto «lotteria», il Mondiale ha scoperto d’improvviso l’esistenza dei portieri. Non quelli gialappeschi dei primi turni, loro sì un terno al lotto, ma i professionisti del poker, gli specialisti del gioco d’azzardo. Akinfeev (2 parati), Subasic (3, addirittura) e lo stesso Schmeichel, figlio d’arte (1 + 2). La citazione del danese non è un omaggio alla «salma»: se si è arrivati al poligono del dischetto, molto lo dobbiamo proprio a Schmeichel, che ne aveva neutralizzato uno, nei supplementari, a Modric (che poi, da uomo di ghiaccio, si prenderà la rivincita).

E così è la Croazia a raggiungere i quarti. Una Croazia subito sotto (M. Jorgensen) e subito in parità (Mandzukic), gol rocamboleschi, con flipperate di schiena e di grugno. Una Croazia che, zavorrata dal pronostico, ha patito la fisicità e il cambio di marcia degli avversari: da cassa di risparmio a piccolo esercito im missione.

Quando i migliori sono i guerrieri come Mandzukic, è difficile (non certo per colpa loro) che il livello tecnico tocchi vertici sofisticati. Modric ed Eriksen hanno cercato di prendere per mano le squadre, riuscendoci solo in parte. Il talento croato è stato, così, sgonfiato braccio di ferro dopo braccio di ferro.

Dalic e Hareide sono allenatori «di mezzo», cognomi e non ancora nomi, eppure il loro calcio non mi è parso né vecchio né nuovo: mi è parso calcio. Sono i fuoriclasse, e in campo non ce n’erano, tranne Modric, che portano al salto di livello.

Era la Danimarca di Kjaer e Cornelius, lontana dalle vetrine dei Laudrup e degli Elkjaer. Della Croazia mi ha colpito Rebic, non Perisic. Rebic si è costruito il rigore che avrebbe potuto evitare gli altri. Sui quali, poi, Subasic ha speso molto dei suoi riflessi e molto incassato dalle tensioni altrui, lui che era stato il primo a cadere, non senza qualche peccatuccio.

Sic transit tiki-taka mundi

Roberto Beccantini1 luglio 2018

Conquistare Mosca è sempre stato storicamente difficile. Non ci è riuscita nemmeno la Spagna che il ct Cherchesov, memore della strategia anti-napoleonica del generale Kutuzov, ha portato ai rigori. E così la Spoon River delle teste coronate si allunga: Germania Ovest, Argentina, i dieci palloni d’oro di Leo Messi e Cristiano Ronaldo, Spagna. Campione d’Europa nel 2008, del Mondo nel 2010, ancora d’Europa nel 2012. Sic transit tiki-taka mundi.

E’ stata la classica operazione nel corso della quale, dopo aver addormentato il paziente (autogol di Ignashevic), si è appisolato il chirurgo (braccio alto di Piqué, che fosse di spalle non c’entra, penalty di Dzyuba). Sulla partita poco da aggiungere: ispida, noiosa, territorialmente squilibrata ma come tiri «nudi e crudi» neppure tanto.

I maniaci delle statistiche brinderanno alla quantità di possesso palla e ai più di mille passaggi ricamati dalla Premiata sartoria Iniesta (non subito però, questa volta a gioco in corsa). Se avesse potuto, sempre alla «Kutuzov», la Russia avrebbe dato fuoco alla sua metà campo, ma non potendo ha alzato un catenaccio che, immagino, avrà commosso i nostalgici e innoridito i moderni (non il sottoscritto). Perfino Golovin – una mezzala che dà l’idea di saper fare un sacco di cose anche quando non le fa – ha partecipato alle trincee, oltre che alla riffa dal dischetto.

Il capro espiatorio è pronto e si chiama Hierro, il comandante che esce. E’ la norma, da Buenos Aires a Madrid. Scaviamo, prima di giudicare. Con Xavi, Iniesta giovane e ne butto lì un altro: Fabregas, il torello restava un mezzo, con Koke è sembrato un fine. Triste, barboso y horizontal. Prendete Isco: per gudagnare un metro (all’ala, per giunta), doveva marcare addirittura se stesso. E poi Diego Costa, l’orco scomparso. Anche per questo la favola è finita male.