Rispondeva sempre, agli auguri di Natale. Questa volta no. E allora ho temuto che. Aldo Agroppi aveva 80 anni. Ci ha lasciato il 2 gennaio, lo stesso giorno in cui – nel 1960 a Tortona – spirò Fausto Coppi. Debuttò in serie A il 15 ottobre 1967, Toro-Sampdoria 4-2, la domenica della tragedia di Gigi Meroni. E dai granata se ne andò, spintovi da Gigi Radice, nell’estate del ‘75, proprio alla vigilia della stagione dello scudetto. Tu chiamalo, se vuoi, destino.
Toscano di Piombino, mare e navi, mediano di corsa e marcatura, 15 reti (tre pure nei derby), i baffetti a rendere british il piglio e il puntiglio. Aldo numero sei e Giorgio Ferrini, il capitano, numero otto. Quando il Toro era toro, sul serio.
Da ragazzo, sivoriano; poi ribelle e anti Juventus, anti palazzo, anti (quasi) tutto. Non ha mai perdonato a Marcello Lippi, toscano di Viareggio, la mancata confessione del gol che, in un Sampdoria-Toro 2-1 del 12 marzo 1972, l’arbitro, Enzo Berbaresco di Cormons, prima convalidò e poi annullò. Diluviava, il campo era butterato di fango e pozzanghere, non c’era il Var, la palla mi parve dentro, tutta, pur tra le ombre di una mischia così omerica. Classifica finale: Juventus 43, Milan e Toro, il Toro di Gustavo Giagnoni e il suo colbacco, 42.
Vinse 2 Coppe Italia, chiuse a Perugia, disputò 5 partite in Nazionale, fece l’allenatore – persino della Fiorentina – ma capì che non era il suo mestiere: Daniel Passarella lo salvò da una rissa accesa dai legionari di Giancarlo Antognoni. E una omessa denuncia, a Perugia, gli costò quattro mesi di squalifica nell’ambito del Totonero-bis.
Troppo sanguigno e troppo soggetto agli agguati della depressione, viveva il calcio da ultimo dei Mohicani. Ha scritto un libro «Non so parlare sotto voce»
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