Era d’estate

Roberto Beccantini18 settembre 2024

E’ scappato via anche Totò, che all’anagrafe faceva Salvatore Schillaci, vinto da un brutto male, lui che in vita e in carriera per vinto non si dava mai. Aveva 59 anni, da Palermo a Palermo. Gli dobbiamo un’estate, un’estate lunga e sola, dentro la quale stipò i suoi e i nostri sogni. Millenovecentonovanta: il Mondiale delle notti magiche (meno una); sei gol e lo scettro di capocannoniere; la medaglia di bronzo a squadre; il secondo posto nella classifica del Pallone d’oro; la Coppa Italia e la Coppa Uefa con la Juventus di Zoff.

Sfido chiunque a non invidiargli almeno una fetta di torta. Sbocciò nel Messina di un professore, Scoglio, e di un profeta, Zeman. Poi la Juventus. Nel suo muoversi random, ma felino, Boniperti aveva colto qualcosa di Anastasi. Tre stagioni, tre allenatori: Zoff, Maifredi, Trap. Quindi l’Inter, poco più che una toccata e fuga, e il Giappone: sayonara, arigatò e tutti ai suoi piedi. Totò. Istintivo. Selvatico. Quelle pupille che sparavano, quello slang siculo che faceva sorridere. Un privato mosso e mai rimosso, un pubblico da garibaldino che nell’isola non sbarcò, ma dall’isola si imbarcò.

E quell’estate. Molto italiana. Molta schillaciana. Totò. Sbagliava di quei gol che avrebbero fatto smoccolare una suora, ma per un mese, quel mese, li moltiplicò: di testa, di rapina, in acrobazia, di staffilata. Terrone (dalle curve) e campione (nel cuore), ti faccio sparare (a Poli, Bologna) e rubalegomme (il fratello), il fiuto e la smania: più s’incazzava, più il destino si incuriosiva. Sino a quello snodo, a quegli scrosci. Si era felici perché, italiani o no, segnava uno di noi, uno come noi, o almeno come avremmo voluto essere. Un Totò che giocava un calcio naif, da strada, tra un minchia e un «mia», perché voleva sempre la palla. Per farci l’amore, geloso e permaloso. Ma schietto.

Era d’estate.

A luci rosse

Roberto Beccantini17 settembre 2024

Nel salto dalle locandine al campo ci vorrebbe un materasso. O un Venezia. Se no può finire come stasera, Milan-Liverpool 1-3, e il risultato è bugiardo, bugiardissimo. Non c’è stata partita, soprattutto nel primo tempo. Nonostante il gol di Pulisic, in contropiede. Era il 3’. Era. Da lì, solo Luna rossa (anche se in nero). Due traverse di Salah, le craniate di Konaté e Van Dijk, da punizione e da corner, gli sgorbi di Diogo Jota, gegenpressing furibondo e, non appena il Diavolo si allungava, giù botte, giù botti.

Si parlerà di Fonseca, tatticamente imbalsamato, e di Maignan. Pluri-infortunato, da 7 fra i pali, da 4 in uscita. Andava sostituito prima? Probabilmente. Sarebbe cambiato qualcosa? Non credo. Torriani, classe 2005, il suo l’ha fatto e sulla transizione Gakpo-Szoboszlai non ha colpe. Colpe, e non lievi, le hanno Leao (a parte il palo del 95’), il peggiore; Theo, briciole; Loftus-Cheek, manco quelle (per il ruolo?); Pulisic, scomparso dopo 45’; Morata, Reijnders, gente che avrebbe dovuto garantire un minimo di profondità, di cazzimma; Pavlovic e Tomori, sempre alla mercé. Mi tengo gli spiccioli di Abraham. Hombre vertical, almeno lui.

Nessun dubbio che i Reds siano più forti. E lo sono stati. Ma in maniera addirittura scolastica, troppo comoda. Gravenberch, Szoboszlai e MacAllister si sono limitati a cantare, dal momento che la croce la portavano gli avversari: scialbi, pavidi, mai reattivi.

Il Liverpool volava, il Milan arrancava. C’è stata gloria persino per Chiesa. Slot è stato furbo, costringendo i rivali a bazzicare a destra, lontano da Leao. O è stato fesso Fonseca a caderci o a volerlo? Leao: grande con i piccoli, piccolo con i grandi. In generale, manca equilibrio, come con l’ultimo Pioli, manca personalità. I fischi del popolo hanno scortato e suggellato la resa. E domenica sera c’è il derby.

L’acuto, poi il coro

Roberto Beccantini17 settembre 2024

L’acuto del singolo e poi l’orchestra. Non credo che ci sia nulla di male. Era la prima della nuova Champions ed era, per Madama, un ritorno. Da qui un approccio timido, il Psv incerottato e fragile, molto fragile, a palleggiare nella di lei metà campo, tra strappetti (Bakayoko) e tralicci (De Jong). Del Thiaghismo affiorava poco: succede, quando devi cambiare libro (e non semplicemente pagina) e si studia giocando, o si gioca studiando, visto che il mercato, sì, insomma, eccetera eccetera.

Improvviso, l’arcobaleno di Yildiz. Un destro delpieresco. A giro, così angolato da sbaciucchiare il palo. Cambiaso che confonde i batavi, il turco che ne approfitta. Lesto, preciso. Ecco. Si scuote, la Juventus. Nico a destra, Koop sul centro-sinistra, area cicciosa e non più scheletrica. E McKennie. Un vecchio catorcio nascosto in garage, offerto a ogni genere di cliente, e sdoganato al posto di Douglas Luiz. Saranno stati gli allenamenti. Sarà stato boh. Morale: due occasioni, il portiere gli rintuzza la prima e si arrende alla seconda, propiziata da un blitz di Nico Gonzalez e un simil velo di Vlahovic, sui cui piedi non tramonterà mai un «porca vacca».

Doppietta in sei minuti, dal 21’ al 27’. E, in avvio di ripresa, il terzo di Nico, su palla recuperata da Koop e assist del serbo (!). E’ il 52’: da questo momento, gestione aziendale del gruzzolo fino al pisolo sul 3-1 di Saibari (giusto al 93’). Nel mezzo, tiki-taka dal basso, un po’ di testa al Napoli, ci mancherebbe, e la volontà social-popolare di far segnare Vlahovic. Un’impresa: nonostante gli aiutoni di Koop e Fagioli.

Ricapitolando: bene le fasce (a destra Kalulu-Nico, di là Cambiaso-Yildiz); in progresso l’ex Dea e l’ex Viola. Sul podio più alto, Yildiz. Anche perché, come scriveva Pasolini, «ogni gol è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice».