Lavori (e valori) in corso

Roberto Beccantini20 ottobre 2020

Lucescu si è messo lì, sulla riva del fiume. Tranquillo, con la sua tribù non proprio bellicosa come quella di Donetsk. C’era una volta la Dinamo Kiev del colonnello Lobanowski: i ricchi schemi. E la Juventus? Qualcosina, sì. Un po’ più di palleggio, un po’ più di profondità, 65’ a centro ring e zero rischi. Pirlo deve gestire l’assenza di Cristiano, i muscoli-roulette di Chiellini e un assetto che ancora sfugge. Come le maglie: né da collegio né da balera.

Era il debutto in Champions, continuano i lavori (e i valori) in corso. I ritmi, bassi, avrebbero dovuto favorire la precisione. Se l’avversario aspetta e fa massa, ci si muove senza palla o si inventa un dribbling (come Chiesa e Ramsey: in rari casi, però), o si azzecca un lancio. Perché sì, a metà campo sono tutti buoni, è al limite dell’area che si misura la nobilitate del giocatore, e della trama che lì l’ha portato; è lì, nella giungla, che sei quello che diventerai e non più quello che sembravi.

Vi dirò: Kulusevski, tacco a parte, da seconda punta soffoca. Ha bisogno di aria, non di area (a proposito). Chiesa sta entrando in punta di piedi. Qualche volata, un paio di tiri. E Morata, la quarta scelta, scuola Real, è stato sponda e fionda: due gol, il primo di rapina (complici l’azione, bella, e il portiere, tristo); il secondo di testa, su cross di Cuadrado (da destra, da destra). Non uno, da Bentancur a Rabiot, che non abbia portato il suo mattone: senza guizzi tali, però, da strappare i fanatici dal divano.

A Pirlo piace il calcio che piace: di recupero lesto, di possesso vorace, di raffiche da film. Più o meno lo stesso che eccitava «C’era Guevara». Sappiamo come finì. Andrea è «figlio» di Andrea e, dunque, lavori tranquillo. Gli spiccioli di Dybala sono stati un segno, non ancora segnale. E comunque, salvo l’ultimo quarto d’ora, tutto sotto controllo. Fra un giallo e l’altro, più facile che a Crotone.

Da Ibra al cantiere

Roberto Beccantini17 ottobre 2020

A Crotone aveva pareggiato anche la corazzata di Allegri. E poi non c’era Cristiano. Brutta Juventus, a prescindere. E, come a Roma, meglio in dieci. Un altro rigore (corretto, procurato da Bonucci e trasformato da Simy), un altro espulso (Chiesa, per pedata pericolosa a metà campo su Cigarini, lui sì poi graziato), e il raddoppio di Morata sospeso per 3’30″ e quindi annullato per un fuorigioco tecnologico non lontano da quello che ha mandato al manicomio Klopp nel derby di Liverpool.

Gli episodi, certo. Anche un palo di Morata, il più vivo. Ma il gioco? Pirlo ha riproposto Frabotta e lanciato Portanova, centrocampo nuovo di zecca, da McKennie-Rabiot ad Arthur- Bentancur, poi Chiesa e Kulusewski: una coppia di fatto troppo a destra, troppo vicina. Per Chiesa era il debutto: un assist e un rosso. Lo ricorderà.

Bravo, il Crotone di Stroppa, a chiudersi, sì, ma senza buttare via le chiavi. Al di là del pari preso in contropiede, il massimo l’ha dato all’inizio dei due tempi, al guinzaglio di Cigarini, regista vecchia maniera. Quando si cambia, quando non entra manco Dybala e l’unico ingresso «hard» che puoi (o vuoi) permetterti è Cuadrado, servirebbe una manovra più collaudata. I giovani hanno bisogno di tempo, come l’allenatore, e la pazienza è una virtù che Agnelli soffre. Lo scorcio storico è complicato. I problemi più urgenti penso che siano in mezzo: si porta troppo palla. Manca la scintilla del lancio.

Se Crotone-Juventus è stata brutta, sporca e cattiva, il derby è stato vibrante. Il risultato si specchia nella sfida dei centravanti: Lukaku 1, Ibrahimovic 2. Poi il «giuoco», naturalmente, con Pioli che sventolava la difesa titolare mentre Conte, venduto Godin, senza Skriniar e Bastoni, insisteva con Kolarov sul centro-sinistra della linea. Un disastro. Però che Ibra.

Napoli, un pugno sul tavolino

Roberto Beccantini17 ottobre 2020

Quando il risultato è così «tranchant», i maniaci delle lavagne si aggrappano a tutto: al fatto che il Napoli era stato sempre in ritiro e molta Atalanta no; che i ritorni (di Ilicic, evviva!) costano; che la palla è rotonda e ogni partita fa storia a sé. Però Napoli-Atalanta 4-0 in 42’ (e poi 4-1) costituisce un pugno sul tavolino, non un semplice – e minaccioso – avviso ai naviganti.

Gattuso ha azzannato Gasperini come di solito Gasp azzanna gli avversari. Gli ha tolto il respiro, ha costretto i Palomino e i Romero a fotte brerianamente sesquipedali. Vi segnalo i tre «acquisti»: Lozano, Osimhen, Bakayoko. Ho usato le virgolette, perché il messicano c’era già la scorsa stagione, ma questo è proprio un altro: per come segna (doppietta) e per come si muove. Osimhen, Bakayoko (e Koulibaly) assicurano, in compenso, i muscoli che offrono muri difficili da scalare. In difesa, in mezzo, in attacco: ovunque. L’ex Lilla mi sembra più «profondo» di Milik e, a differenza del polacco, capace di esistere oltre i gol. E mancavano, fra parentesi, Insigne e Zielinski.

Siamo alla quarta e, dunque, l’esperienza invita a non trasformare le tracce della preda in preda. Ma neppure a trascurarle. Come non bisogna dimenticare la Champions che l’Atalanta dovrà gestire. Rispetto al massacro del primo tempo, il secondo non poteva non essere una sorta di dignitoso armistizio, con la Dea, orgogliosa, a salvare almeno le apparenze (il guizzo di Lammers) e i Gattusiani, sazi, a girarle attorno per evitare di addormentarsi.

A un certo punto è uscito persino il Papu, uno dei pochi che, sotto il diluvio, aveva cercato di aprire almeno un ombrello. Sul campo, è un Napoli che viaggia a punteggio pieno, 12 gol fatti e la miseria di 1 subìto. Ha aggiunto munizioni all’arsenale, nella mia griglia figurava al quinto posto (e l’Atalanta, terza). E’ ancora presto, ma ricordare aiuta a stare nella cesta.