Fumo di derby

Roberto Beccantini13 aprile 2024

Boniperti lo avrebbe abolito, il derby. Allegri, in compenso, ne avrebbe voluti tre o quattro a stagione. Non stavolta, direte, ormai ai titoli di coda senza titoli (Coppa Italia a parte, forse). Zero a zero. Un tempo per uno, e potrei finirla qui. Il Toro non lo vince dal 2015. Motivi: ansia da prestazione e rapporti di rose sempre più lontani dal pathos degli anni Settanta.

Madama si era alzata dai blocchi con le fregole e le volate di Chiesa: sulla seconda, Vlahovic ha colpito il palo. Sfortuna? No, gol sbagliato. Come Giroud agli sgoccioli di Milan-Roma di giovedì: da lì si segna. Punto. Poi, sempre da destra, è sceso e ha crossato Gatti (uno stopper, oplà). Difesa sorvolata e Vlahovic ancora lì: ma pure Milinkovic-Savic. Gran ginocchiata e ciao Max.

I granata l’hanno messa sul pressing, sulla fame, al servizio di Zapata e Sanabria. Molta polvere, molta confusione: sulle fasce, soprattutto. Intasatissime. E nella tonnara, là dove Vlasic e Ricci (ficcante), Locatelli e Rabiot (ei fu) cercavano di spalancare almeno un filo di cielo. Bremer e Zapata, Buongiorno e Vlahovic se le davano all’inglese. Il serbo scontava i peccati commessi sotto porta. Qua e là si accendevano falò di nervi, tanto per ricordare che il derby è derby (e Maresca, Maresca). Chiesa ala, un ruscello in piena; Chiesa ambulante, il solito rigagnolo, sommerso dalle sterpaglie (e dalle sue lune).

Nella ripresa, il Toro saliva e la Goeba calava. Di testa, Sanabria scuoteva Szczesny. Di testa, al 95′, Lazaro sprecava sopra la sbarra. In mezzo, lo sbarco di Yildiz e l’esilio di Chiesa – avevate dei dubbi? – e un gran destro del turco smorzato dal portiere: tra i migliori, dopo che a ottobre era stato il peggiore. Della Juventus, notizie vaghe. Del Toro, tracce di orgoglio, di pressione e di passione (il rosso a Juric). Ma dal ribollir dei toni, altro non usciva.

Spot anti-noia

Roberto Beccantini9 aprile 2024

E’ arrivato il massimo, naturalmente. Non subito, però. L’incipit è da strilli della maestra: papera di Lunin su punizione di Bernardo; autogol di Ruben Dias su lecca di Camavinga; contropiede di Rodrygo da metà campo (!). Un quarto d’ora da abbasso l’ortografia. E stiamo parlando di Champions, di Real-Manchester City. La squadra di sempre, la squadra di oggi. Nella ripresa, bim-bum-bam. Come se il Bernabeu si fosse scocciato. Dinamite mancina di Foden, fin lì da cinque. Destro filante di Gvardiol. Volée di Valverde, un destro supersonico, su assist di Vinicius, già fornitore, in avvio di corrida, della razzia di Rodrygo. E allora: 3-3. Si decide, mercoledì, all’Etihad Stadium.

Luna Park, dunque. Con le emozioni a sequestrare il tifo e a mescolarne l’ansia, l’euforia. Il Pep è il Pep: può permettersi di lasciar fuori De Bruyne e fare un cambio in tutto, uno solo (87’, Alvarez per Foden). Carletto ne ha effettuati tre, compreso Kroos, perno del centrocampo. In ordine sparso: Bellingham in riserva; Haaland, zero spigoli dall’Acerbi di Istanbul a Rudiger; Rodri meno tiranno del solito. In gran spolvero Camavinga e Kroos, Grealish e Stones.

Real senza centravanti classico, City «con». Real sornione sotto l’ombrello del pressing, ad attendere e scrutare l’incedere nuvoloso degli avversari: due gocce o scrosci? Con i lampi di Rodrygo (più ala) e Vinicius (un po’ meno) a sabotare la trama. City subito a cassetta, ma con frustate timide, sino al forcing della svolta.

Quattro gol segnati da fuori area confermano quanto fosse complicato entrarvi. Inoltre, al netto della scienza dei domatori, sono state le belve ad azzannare l’ordalia, rendendola spasmodica e croccante. Calendario alla mano, più freschi avrebbero dovuto essere i Blancos. City di possesso (62%), Real di rimessa. Ognuno secondo il suo stile. Per questo, chapeau. Per questo, favorito resta Pep.

Mezz’ora in cattedra. Poi catenaccio

Roberto Beccantini7 aprile 2024

Una mezz’oretta, almeno. La traversa di Gatti, i tre gol annullati per fuorigioco (il terzo, di Vlahovic, per un «passetto» di McKennie), il tap-in di Gatti. Non solo: un’aggressività da vecchi tempi, Chiesa e il serbo riforniti e istruiti. Con la Fiorentina rannicchiata e pavida. Allegri sembrava Italiano, Italiano pareva Allegri. Avrebbe meritato di più, Madama, ma i centimetri danno e i centimetri tolgono.

Piano piano, è cominciata un’altra partita. La «solita». La Vecchia sulle sue, gli avversari audaci per forza, se non proprio per scelta. La settimana di coppa aveva portato un successo a testa: la Juventus, martedì, 2-0 alla Lazio. La Fiorentina, mercoledì, 1-0 alla Dea. Cerotti su mappe di cicatrici.

Le staffette hanno avvicinato le differenze e ribaltato la trama. Da Maxime Lopez e Sottil (soprattutto) sono arrivate zanzare fastidiose. Allegri tornava Allegri: indietro Savoia. Italiano, Italiano: un torello che, per quanto sterile, accerchiava il fortino e rendeva spasmodica ogni mischia. Sarebbero serviti, all’ex Tiranna, contropiedi più ficcanti dell’autogol sfiorato da Milenkovic e delle titubanze assortite di Vlahovic. E alla Fiore, banalmente, un centravanti.

Dal 60’ o giù di lì, catenaccio puro. E super Szczesny (più traversa) a negare il legittimo pari a Nico, e poi a Beltran, complice lo scudo umano di Nzola. I lucchetti di Bremer, Gatti e Danilo tenevano botta. Il 75% di possesso aiutava la Viola a crederci, ma non a raggiungere l’obiettivo. Yildiz aveva sostituito Chiesa, Iling-Junior un non malvagio Kostic. Non vinceva, il Minimum Max, dal 25 febbraio: 3-2 al Frosinone. E’ il secondo squillo nelle ultime dieci gare. Sono talmente incavolato per il pari del Liverpool a Old Trafford che la chiudo qui per paura di «innamorarmi» del risultato.