La vigliaccheria di Gravina

Roberto Beccantini8 June 2025

Brutto giallo, questo della Nazionale, scritto malissimo dall’autore (Gravina), con l’assassino noto fin dalle prime pagine post Norvegia e pre Moldova, e addirittura reo-confesso: Spalletti. Esoneratosi perché esonerato. Eppure quando Slavina lo soffiò a De Laurentiis e lo presentò in pompa magna il 18 agosto 2023, ci genuflettemmo tutti ai suoi piedi, suoi di Luciano, felici che fosse lui, proprio lui, l’erede del fuggitivo Mancini.

Invece: là dove c’era l’erba di Osimhen, Kvara, Lobotka, Anguissa, è sorto un formicaio rivelatosi più fragile e ingolfato del previsto. E così: fuori negli ottavi, agli Europei, dominati dalla Svizzera; eliminati dalla Nations League per mano tedesca; bastonati 3-0 dalla famiglia Odegaard, con il Mondiale pericolosamente in bilico. Sarebbe il terzo fallimento di fila, dopo Ventura (Svezia) e Mancio (Macedonia del Nord). Sarebbe una tragedia, sì, ma pure una tendenza, inutile nascondersi dietro le parole.

Quando dai troppa importanza agli allenatori, e troppo poca o non altrettanta ai giocatori, può succedere – anzi, succede spesso – che i risultati spingano sul rogo i tecnici, pagati per appagare e, se non ci riescono, per pagare. Mi ha colpito la vigliaccheria di Gravina, pessimo custode di un regime che censura più i 40 anni di Modric che non gli 85 di Carraro. Ha voluto pararsi il sederino cedendo alle fregole forcaiole di alcuni giornali, non proprio il massimo della coerenza. Sconta, l’abate di Certaldo, il trasloco brusco da mister a selezionatore, mestieri diversi assai.

Ricominciamo, canta Pappalardo. Da Ranieri o da Pioli, pare. Domani sera, la Moldova a Reggio Emilia. L’ultima di Spalletti. Giocatori senza alibi, si scrive in questi casi. Con un immancabile cenno agli stranieri, invasori e invadenti, che per la cronaca pullulano anche in Spagna. Gli Slavina, invece, solo da noi.

Ahi, brocca Italia, di orrore ostello…

Roberto Beccantini6 June 2025

Chi ha sbagliato, Rovella? Parafrasando il fantozziano Pagliuca di zio Vujadin, il disastro resta. E che disastro. Norvegia tre, Italia zero. A Oslo, sotto il diluvio. Era la prima tappa della marcia verso quel Mondiale che manchiamo dal 2014. Con Ventura e Mancini fuori subito, nei playoff eliminatori. La corona europea del 2021 brilla triste, solitaria y final (molto final).

Povero Spalletti. Dalla grande bellezza del Napoli alla grande bruttezza di questa Nazionale senza capo (e capi) né cuore. Noni nella classifica Fifa, noi. E loro trentottesimi. Eppure sembravano il Brasile. Nusa (classe 2005) in versione Garrincha: che gol, il suo gol (dribbling, ri-dribbling e destro filante). Odegaard in modalità Gerson, a orchestrare. Haaland, non proprio Careca ma neppure il Serginho spagnolo: rete a porta vuota, dopo aver scartato il Gigio, su assist metafisico di Odegaard. Per tacere di Sorloth, l’apriscatole, e del palo di Berg, nella pancia di una ripresa governata senza bisogno di manganelli.

Il trasloco dalla manita di Monaco a ‘sto macello porta alle stesse conclusioni. Una sola squadra in campo: gli avversari. L’azzurro tenebra ha coinvolto e sconvolto tutti: il mister (c’erano una volta Osimhen, Kvara e Lobotka), i giocatori, da Bastoni (distratto sull’episodio che ha spaccato l’equilibrio), a Tonali e Barella, dai terzini a Retegui. Primo tiro in porta, al 92’: «telefonata» aerea di Lucca, tuffo di Nyland a uso e consumo dei flash. Fra i meno peggio, Coppola: un deb. Lo stopper, in assenza del fuggitivo Acerbi, deputato alla guardia del centravanti-ciccia del Pep. Tardivi i cambi: e comunque pura cornice.

Il mio Sinner sarà Chiesa, proclamò in tempi non sospetti (e lontani, lontanissimi) il buon Luciano. Succede. La speranza è che la colpa sia solo del docente, di cui qualcuno ha già chiesto la cattedra. Ho molti dubbi. E me li tengo.

Champagne League

Roberto Beccantini31 May 2025

Lo aveva promesso a Xana, la figlioletta falciata a 9 anni da un destino troppo cinico e troppo baro. Luis Enrique, hombre vertical, allenatore signore e moderno. La prima Champions del Paris Saint-Qatar. Il 5-0 inflitto all’Inter è una valanga che va al di là del mio pronostico (Inter 51%, Paris 49%) e travolge gli argini delle statistiche. Non c’è stata finale, a Monaco, non c’è stata partita. Due gol in venti minuti (l’ex Hakimi, su azione corale e assist di Doué; Doué, complice la schiena di Dimarco); quindi controllo palleggiato e, nella ripresa, come si dice a Bologna, il resto del Carlino, in contropiede o in transizione (fate voi): ancora Doué (classe 2005), Kvaratskhelia e Mayulu (2006).

Se, per paradosso, di Sommer non ricordo parate «vere» – o gol o traversa di Dembélé o bignè buttati, persino da Barcola – l’unica di Donnarumma risale al 75’ (su Thuram). Una mattanza. Una lezione. Con i Dorando Pietri di Inzagone tornato Inzaghino (scommettiamo?) annichiliti a tutti i livelli – strategico, tattico, tecnico, caratteriale – e pericolosi, parola grossa, esclusivamente sui corner.

Le idee di Luis Enrique. Pronti-via e palla in touche, tipo rugby, per agitare il vessillo dell’aggressività. Poi Dembélé «fisso» sul portiere, in modo da costringerlo a rilanci tormentati. Poi, attorno a Vitinha, tocchi e tacchi. Nessuno dei naufraghi interisti ha rimediato una scialuppa o almeno un salvagente, da Dimarco ad Acerbi, da Calha a Barella, da Lautaro a Thuram. Sul fronte opposto, viceversa, non uno che sia sceso sotto il 7, partendo dall’8 di Doué, Dembélé e Kvara, ora ala ora terzino (su Dumfries, lui che aprì la scatola del Barça).

Senza Mbappé, signore e signori. Non più un album di figurine. Al contrario. Corsari giovani, assatanati e telecomandati.
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