La fame batte la fama

Roberto Beccantini22 May 2025

Un rito pagano con rare, rarissime, concessioni al latinorum classico della liturgia. Una finale brutta e sporca, ma vera, come vera è la vita e veri sono sempre i derby, con il Tottenham che imbocca l’Europa League, «scorciatoia» per la Champions, e il Manchester United che conferma di essersi dimesso da sé stesso. Venivano, entrambi, da una stagione fallimentare, i Red Devils sedicesimi e 18 sconfitte, gli Spurs diciassettesimi e 21 sconfitte. Ha risolto un gol di Johnson che sembrava autogol di Shaw, ma questo è un dettaglio. Anche se pesa. Anche se fa bacheca.

Mancavano, agli «speroni», la fantasia di Kulu e il nitore di Maddison, oltre che il miglior Son. Postecoglou ha fatto di necessità Romero e Bentancur: che fosse la storia, se mai, ad alzare la voce. La storia, per sua fortuna, era un avversario grigio, mestamente riassunto dagli sgorbi di Bruno Fernandes (persino nell’azione fatale). Il corto muso e il 27% di possesso, con tanto di pullman a cinque a mo’ di suggello, ribadiscono come e quanto il detto di Paron Nereo rimanga attuale: «Dal lùnedi al vénerdi i xe olandesi. Al sabato i ghe pensa. La domenica, giuro su la mia beltà, tuti indrìo e si salvi chi può».

Suggestiva e palpitante, la cornice del San Mames di Bilbao. Piccante, il ritmo. Avari, in compenso, i brividi. La parata della noche non l’ha effettuata Vicario (4 in uscita, 7 fra i pali), ma lo stopper Van de Ven, in acrobazia, su zuccata di Højlund , cerotto estremo a una sfarfallata del portiere.

Il Tottenham, che fu di Conte e deve a Paratici lo scheletro della squadra, non alzava un trofeo dal 2008 (Coppa di Lega). C’è chi prese l’addio di Kane come un atto di resa. Il destino, se vuole, sa ribellarsi ai luoghi comuni. Non però a un Manchester così poco United, con Garnacho prigioniero di Amorim e Dorgu titolare. Resta il risultato: 1-0. Non ti curar di loro, ma guarda e stappa.

Punto di vista

Roberto Beccantini19 May 2025

Eccomi, gentili pazienti: una domenica così, con tutti contro tutti all’ora di cena, mi mancava. Da quando, ragazzo, andavo allo stadio di Bologna, la pupilla fissa al campo e l’orecchio prigioniero del transistor e del suo gracchiare. In condizioni normali si sarebbe parlato e scritto «solo» dello spalla-a-spalla tra Nico e Solet in Juventus-Udinese. Invece no. Campa cavillo. Il 2-2 di Inter-Lazio e lo 0-0 di Parma-Napoli hanno in pratica consegnato lo scudetto a Conte Dracula. Un punto a una virgola dalla fine. Figuriamoci.

Ho sorriso nel leggere, in assenza di «lei» a rompere le scatole, la baruffette tra parte-nopei e parte-interisti, «sì, c’era fallo a monte dell’agguato a Neres, ma quanti ne hanno dati, di penalty così?»; «il braccio di Bisseck? Al Var, con Di Paolo, c’era Guida, quello che “Non fatemi arbitrare il Napoli perché ho tre figli e voglio poter fare la spesa”». E i giornali. Uhm. Tornando alla pugna di San Siro. Per il Corriere dello Sport-Stadio, «rigore netto»; per la Gazzetta, «restano dubbi». [E riesumando per un attimo il cozzo Nico-Solet: per il Corsport, «più fallo che no»; per Tuttosport, a firma Calvarese, «niente fallo». Aléoooooooh].

Che notte, quella notte. Il rosso a Gimenez, in Roma-Milan, per un gomito simil Beukema (nulla) e simil Kalulu (fuori). Il 18 gennaio 2022 scrivevo che la «mano-grafia di Matthijs De Ligt non è un elenco, è una storia». I mani-comi li aveva aperti Rizzoli nella stagione 2019-2020. Non sono mai stati ri-chiusi del tutto, per tutti e da tutti. Si vive di volume e alla giornata, con l’assistenza del video in balia dei loggioni e delle edicole.

Inzaghino e Baroni, Chivu e Conte: todos espulsi. L’adrenalina, la cazzimma, la voglia di. A naso, non immagino mozioni parlamentari né esami del Dna alla Garlasco. Come sarebbe andata, nel Novecento, senza i tele-cerotti dell’Intelligenza artificiosa? Boh. Come ha scritto Aldo Busi, «Non si mettono le mutande alla parole». E allora, qua la mano (uffa).

Coppa Italia(no)

Roberto Beccantini14 May 2025

Quando decide il migliore, poco da dire. E se risolve addirittura una finale di coppa, molto da celebrare. Il gol di Dan Ndoye – di destro, dal cuore dell’area, lui che è un’ala, su auto-assist di Theo, disturbato da Orsolini – ha premiato il Bologna e bocciato il Milan. Non è stata, sotto il ciuffo di Sinner, una notte di smorzate e slice, di pallonetti e volée. Anzi.

Veniva, Italiano, da tre finali perse, tutte con la Viola (2 di Conference, 1 di Coppa Italia). Passava per un perdente di successo, l’etichetta che piace ai critici di insuccesso. Ereditò da Thiago una squadra da Champions, ma non la stessa rosa, viste le partenze di Calafiori e Zirkzee. In estate si smoccolava. Oggi si canta «Bologna campione» di Dino Sarti e si pensa ai «bei passeroni» ai quali Civ avrebbe dedicato un epinicio dei suoi.

Il problema del Milan era l’aggressività dei rivali. Il problema del Bologna, la difesa dalle punture di Leao. Ha vinto il pressing di Freuler e c. Il cuore ha domato il censo. Un riflesso di Maignan su Castro, un doppio Skorupski su Beukema (!) e Jovic, un equilibrio ispido, fra botte (molte) e botti (rari). La mossa Jovic pagò con l’Inter, non stavolta. Supplente da gennaio, Conceiçao resta così abbarbicato alla Supercoppa di Riad. Temo che non basterà.

Che delusione, i tenori: da Rijnders a Pulisic, da Theo a Leao, piano piano scomparso dai radar (un classico, là dove infuria la tempesta). Un disastro, Joao Felix. Nulli, gli spiccioli di Gimenez, Abraham e Chukwueze. Ha chiuso, Italiano, togliendo l’Orso grigio e piazzando, a destra, Casale e Calabria. Mica fesso. Roma, città santa: il 7 giugno 1964, lo scudetto a spese dell’Inter. Il 14 maggio 2025, la Coppa Italia strappata al Milan, la terza della saga dopo quelle del 1974 (all’Olimpico, sempre) e del 1970. Complimenti ai cuochi. E cameriere, turtlein.