Andavo ai cento all’ora

Roberto Beccantini4 May 2025

Era uno spareggio, e come tale l’hanno giocato. A ritmi così isterici che i piedi hanno faticato a reggerne lo strascico. Mai, o quasi mai, un pit-stop. Sempre a tavoletta. E alla fine: 1-1. In vantaggio, la Juventus, già al 9’ con Thuram: complice una spanciata di Skorupski. Il pari del Bologna al 54’, in mischia, con Freuler e carambola di Veiga.

In mezzo, l’aggressività di Italiano, il mordi e fuggi di Tudor, un forte sospetto di rigore su Freuler (di McKennie), un arbitraggio (diritti e «Doveri») che lasciava allegramente menare e volleare (Savona). Ma anche una suola di Cambiaso in fuorigioco (citofonare Mkhitaryan): sarebbe stato lo 0-2. E una scivolatona di Alberto Costa al momento dello sparo, in piena bolgia: sarebbe stato l’1-2.

La Juventus era decimata, letteralmente, e nelle ripresa ha perso persino Cambiaso. Il Bologna aveva i suoi, di infortunati, da Holm a Ndoye, e, come sempre, ha vomitato pressing da ogni poro. Non all’inizio, però, quando era stato Thuram, il migliore, a rubargli l’idea. In compenso, alla distanza, Cambiaghi, Ferguson (vicino al 2-1 nel finale), Orsolini e Freuler (ma non Odgaard) hanno condotto la trama sulle sequenze preferite: la garra, i corpo a corpo, le folate sulle fasce.

Centravanti cercasi. Da Vlahovic a Kolo Muani il ruolo rimane un guscio vuoto. L’ordalia mi ha avvinto. Tosta e irriducibile, la Juventus: al Dall’Ara, per la cronaca, ci avevano lasciato le penne le milanesi, la Lazio (per 5-0, addirittura), e il Napoli, rimontato, non aveva certo sofferto di meno (anzi).

Gli spiccioli concessi a Conceiçao e Douglas Luiz riassumono lo spirito del tempo (e del mercato). Per la Champions, balla un posto: Juventus, Roma e Lazio 63; Bologna 62. Mancano tre turni. Venerdì Milan-Bologna, sabato Lazio-Juventus, lunedì Atalanta-Roma. Votate.

Sabato napolocutorio

Roberto Beccantini3 May 2025

Quando il gioco si fa duro e il traguardo si avvicina, fare i duri diventa una necessità. Se non, addirittura, una virtù. Lo ha dimostrato il Napoli a Lecce, al culmine di una partita introdotta da tensioni, fumogeni, sospensioni ma anche, per fortuna, dai mazzi di rose e gli applausi in memoria di Graziano Fiorita, il fisioterapista dei salentini scomparso alla vigilia della tormentatissima trasferta di Bergamo.

Zero a uno, punizione di Raspadori. Pochi ma buoni, i suoi gol. Perso Lobotka per infortunio, la squadra di Conte ha smarrito la bussola: non, però, la cazzimma che, fra una traversa di Gaspar e insidie vaganti, l’ha portata comunque oltre la monotona generosità degli avversari. Si fronteggiavano la miglior difesa e il peggior attacco: è andata come la logica suggeriva. Di corto muso non è mai morto nessuno. Specialmente a primavera, in piena volata scudetto. Il Napoli ha dapprima controllato, poi ragionato, quindi sofferto. I cambi gli hanno offerto un filo di ossigeno. Attorno alla polvere sollevata da Krstovic e Pierotti rimane la lapide del risultato. Dal 5 dicembre, allorché beccò tre pere dalla Lazio in coppa, Conte Dracula ha potuto dedicarsi, esclusivamente, al campionato. E se c’è uno che sa come regolarsi in casi del genere, è proprio lui.

Scarto minimo pure a San Siro: mani-comio di Valentini e rigore varista di Asllani in avvio. Dopodiché, avanti adagio. Testa e titolari già al Barça, l’Inter: ben dieci, i cambi di Inzaghino rispetto al Montjuïc. Unico superstite, Bisseck. Il Verona, quasi salvo, ci ha provato con troppo pudore. Salvo, in generale, i dribbling di Zalewski e i lanci di Asllani. Non, viceversa, i languori di Arnautovic. Era il classico sabato del villaggio. In vista dell’Armageddon di martedì. «La storia la scrive chi vince». Allegri? No: Conte.

Noche loca

Roberto Beccantini30 April 2025

Che locura, pazienti miei. Un 3-3 da film western, con un’altalena romanzesca di erezioni. Era l’andata delle semifinali di Champions: ritorno, martedì 6 maggio a San Siro. Chiedo scusa, ma comincio dai giocatori. Yamal (un gol da urlo, due traverse da orgasmo), «yngyocabyle» per metà gara. Thuram, Dumfries: i titolarissimi. Erano mancati, sono rientrati: tacco «dodici» del francese; assist e doppietta (sforbiciata, testa) del batavo, entrambi su corner e con Szczesny, in generale, un po’ troppo amletico.

Non c’era Lewandowski, torre cruciale. E, dal 46’, neppure Lautaro (flessori). Nel primo tempo, l’Inter è stata dentro agli episodi ma non alla partita, stradominata dagli avversari e accesa da falò improvvisi, sporadici. Nel secondo, viceversa, è stato dentro anche all’ordalia, creando situazioni non banali – compreso il 3-4 di Mkhitaryan annullato dal Var per una suola in offside – sino, almeno, alla lotteria degli ultimi minuti, scossa dai «biglietti» di Yamal e Raphinha.

Flick e Flock (Simone): il tedesco non rinuncia mai al sangue zemaniano che lo irrora, difesa impiccata a centrocampo e avanti Savoia, di palleggio o solfeggio, come ha certificato il 2-2 di Ferran Torres (su lancio di Pedri e sponda di Raphinha). Il quale Raphinha ha poi mollato una lecca spaventosa che, complici sbarra e portiere, fissava il tabellino. Il piacentino, fedele a una scuola che va dal catenaccio, se serve, al contropiede, idem, oppure – in altre occasioni – a una manovra più corale, meno bloccata. Veniva da tre sconfitte: ha reagito.

La squadra più giovane, con i 17 anni di Yamal e i 18 di Cubarsì a decorarne la trama. La squadra più anziana, con quel guerriero di Acerbi a zompare da una trincea all’altra. Il risultato perfetto è lo 0-0. Ma questa imperfezione, giuro, non mi ha annoiato.