Per gioco

Roberto Beccantini3 March 2025

Impossibile, dimenticare l’Empoli. Una verguenza. Doveroso, viceversa, ripartire. Con il popolo che ringhia, con il rumore degli «amici», con i vaffa a Thiago e a manca. Vieni al sodo: si dice, di solito, in questi casi. Ci vengo: Juventus due, Verona zero. Quinta vittoria di fila e, per Brio (mi raccomando: ho detto Brio), una partita piena. Certo, il Verona è il Verona, allenatore squalificato e peggior difesa (contro la migliore). Però, obiezione, anche il Cagliari era il Cagliari; il Parma, il Parma; e il Venezia, il Venezia.

E’ qua, solo qua, la differenza. Se escludiamo i tiri di Suslov e Sarr all’inizio, e lo splendido gol di Suslov, annullato per fuorigioco di Faraoni (do you remember? il destino dà, il destino toglie) al 45’ + 2’, Madama ha dominato. Letteralmente. Non è mai uscita dalla trama. Nonostante gli errori (e Nico). Ha costretto Montipò ad almeno sei parate d’autore: soprattutto la prima, su Thuram. Il francese, ecco: titolare e ancora a segno, dopo mercoledì. Ma la notizia è il gol di Koop, uno dei cambi: come Mbangula, il «servitore», e Alberto Costa, omonimo del grande giornalista del Corsera. Costretta agli arresti domiciliari dal piglio della Goeba, l’Hellas ha acceso ceri al suo portiere. Ceri che, fino al 72’, avevano funzionato.

Tra le righe: Yildiz un po’ meno prigioniero della fascia (si può, allora?), Locatelli più avanzato, le sponde di Kolo, i blitz di Cambiaso. E il ritorno di Kalulu. In generale: atteggiamento padronale e, udite udite, rivoli di bel gioco, magari non sempre baciato da una mira all’altezza. In più, dettaglio non marginale, un’adesione della «fabbrica» che ha scacciato complotti e scioperi. L’importante è non fare gli italiani: e non traslocare dal fiele più efferato al miele più sdolcinato. Domenica arriva la Dea: e lì si parrà la nobilitate di molti.

Il fuoco di sant’Antonio

Roberto Beccantini1 March 2025

Tel chì il Billing, classico menù da 10 euro. E’ lui, nigeriano di sangue e danese di scelta, a firmare il più stragiusto degli 1-1. Philip Billing, entrato in corso d’opera e imbeccato da Lobotka, con Okafor e Ngonge, le giugulari di riserva del Conte Dracula. Era l’87’, e l’Inter stava vincendo dal 22’, grazie a una punizione, splendida, di Dimarco: proprio là, nella porta che – contro Madama – Diego deflorò con il suo infinito mancino.

Dopodiché, l’ordalia si è come sparata a una tempia. Il fuoco di sant’Antonio ha spinto ‘o Napule all’arrembaggio, andasse come andasse. I campioni di Inzaghino si sono piano piano ritirati dalle parti di Martinez. D’accordo, gli infortuni di Calha, di Dimarco, lo smalto grigio di Thuram, l’assenza di alternative tra gli esterni. Per questo, ma non solo per questo, un gran casino tattico: a quattro, a cinque, Dumfries dove?

C’era una volta Kvara. E non c’erano Anguissa e Neres. Però che grinta, che cuore, che gambe. Che Lobotka. E che Lukaku. Non è da tutti costringere la capolista al catenaccio, come nella ripresa. Bastoni, su Lukaku e Politano, ha «parato» non meno di Martinez. Per tacere di Dumfries su Ngonge. Mi ha colpito, nei risvolti della trama interista, la penuria di contropiedi. E questo, non esclusivamente dopo l’ingresso di Correa. Sembravano tarantolati, i napoletani; e gli avversari, dal casto Lautaro a Barella, incatenati ai guanti del portiere, allo scudo di Acerbi e, in generale, a un bloque bajo di novecentesco amarcord.

Non credo che lo 0-0 dell’Atalanta abbia condizionato la sfida. C’è chi non ha coppe e chi sì, e questo era uno snodo scudetto. E allora, gattopardescamente: cambiare tutto per non cambiare niente. Mancano undici giornate. Favorita, in barba agli ingorghi dell’agenda, rimane l’Inter. Dimeticavo: tackle ispidi, speroni bollenti, zero ammoniti. All’inglese. E honi soit qui mal y pense.

Sic transit boria mundi

Roberto Beccantini26 February 2025

Al di là dei rigori, nel senso che l’Empoli di D’Aversa avrebbe meritato ben prima. L’ultimo Allegri aveva lasciato «almeno» la Coppa Italia. La Juventus di Thiago si arrende nei quarti – e in casa, addirittura – contro la terzultima in classifica, liberando per una notte la formula del rodeo dalle sbarre odiose dei privilegi di casta.

Le quattro vittorie in campionato sembravano aver allontanato allenatore e squadra da quel burrone sull’orlo del quale stavano pericolosamente annaspando da settembre: dopo che a Eindhoven vi erano finiti quasi dentro.

La palla-gol sprecata da Nico in avvio e, da lì in poi, per un’ora buona, la peggior Goeba impiegabile e immaginabile, zavorrata da un turnover che aveva toccato molti ma non Flopmeiners. Vlahovic al centro e Kolo all’ala viaggiavano in incognito, Nico non ne azzeccava uno, come McKennie. Additare un difetto, dico uno, diventava difficile, tanti ce n’erano: l’arroganza, l’approssimazione, le scelte dell’allenatore (proprio adesso che il calendario dà respiro). L’anima. I piedi.

Via via, le riserve dell’Empoli afferravano lo spirito del tempo, uscivano dal guscio e colpivano con il jab destro di Maleh, su ennesimo sgorbio del Gonzalez Nico. Non solo. Limitavano i danni e volavano in transizione. Tra la fine del primo tempo e l’inizio del secondo, Konate (classe 2006) sfondava un palo, Maleh (ancora) e Sambia spremevano i guanti di Perin.

I cambi di Motta, tardivi, con un sacco di punte e puntine all’occhiello, spingevano l’ordalia verso un tamburello che trasformava l’arena in un poligono aperto a tutti (e a tutto). Il pareggio del Thuram dalle troppe panche era una perla zidaniana. I rigori di Vlahovic (alto) e Yildiz (parato), il capriccio di un destino non sempre cinico e baro. Segnavano tutti, i Davy Crockett di Toscana, già giustizieri della Viola: Henderson, Cacace, Kouamé, Marianucci. Chapeau. E là dove ci si scannava per il corto muso, verguenza e basta.